Melodramma da piazzare
Tranquilli, non voglio (ri)parlare dell’ultima Carmen fiorentina, quella dove il femminicidio diventa maschicidio quindi, pare, curiosamente meno grave o più politicamente corretto. Se n’è già disquisito molto, anzi troppo, spesso pure a sproposito come quando si esercita su temi correlati all’opera gente che non distingue un basso profondo da un soprano di coloratura.
C’è però un aspetto che merita un minimo di, mi scuso per la parolaccia, riflessione. Molti commenti sdegnati hanno qualificato la Carmen revisionata a Firenze come “operazione marketing”, e in tono dispregiativo o scandalizzato. Ora, non si capisce cosa ci sia di male nel marketing, come se il teatro musicale non fosse un prodotto, culturale, alto, nobile quanto vi pare, che però come tutti i prodotti va venduto. Si può discutere se cambiare la conclusione di un’opera sia lecito e soprattutto le motivazioni addotte a Firenze, che risultano assai discutibili perché, se non dovessimo far finire Carmen come finisce per lanciare un messaggio contro il femminicidio, allora dovremmo anche lasciare in vita Romeo e Giulietta per non fare uno spot al suicidio degli adolescenti. Però resta il problema del marketing. Il punto è che chi si oppone ha ancora in testa un’idea di pubblico che non c’è più. Piaccia o non piaccia,
“O si esce dalla concezione museale, oppure non ci sarà alcun ricambio del suo pubblico”
la realtà è che oggi in Italia il vecchio pubblico nazionalpopolare dell’opera non esiste più. Si sta estinguendo, per ragioni talmente ovvie che non è nemmeno il caso di ripeterle. Né se ne riformerà uno, come credono i coeurs simples, mettendo l’opera a scuola. L’ora di melodramma coatto non porterà folle di ragazzi nei teatri, esattamente come lo studio della letteratura non fa aumentare la lettura (per carità, precisiamo che vanno invece benissimo tutte le iniziative per divulgare il teatro musicale, le opere per bambini, le opere pocket e così via).
Il problema è evidentemente un altro. O si recupera il rapporto dell’opera con la contemporaneità, e un repertorio che per molte ragioni, e alcune anche buone, è costituito principalmente di titoli del passato viene fatto dialogare con il presente, insomma se si esce dalla concezione museale che dell’opera si ha in Italia, oppure non ci sarà alcun ricambio del suo pubblico. E questo passa anche dal marketing così aborrito dalle anime belle. Far parlare dell’opera sarà sempre di più il prerequisito per poter continuare a farla, e magari davanti a platee un po’ più piene e un po’ meno geriatriche. Al solito, non è tanto un problema di “cosa”, ma di “come”. E qui davvero la mai abbastanza consigliata gita a Chiasso resta raccomandabile. Chiunque abbia comprato on line un biglietto di un teatro straniero sa che non se ne libererà più (del teatro, intendo, non del biglietto), e avrà vita natural durante la mail intasata di promozioni, offerte, trailer, anticipazioni, rassegne stampa, interviste ai protagonisti, compri tre e paghi due, vieni a cena con i cantanti, fai merenda con il direttore e così via.
Senza contare, appunto, tutto il cancan su ogni nuova produzione, su cui si martella per settimane. Anche, se necessario, creando il caso dove non c’è (anzi, di più). Questo non vuol dire che la prossima volta Carmen ucciderà don José e scapperà alle Maldive con Escamillo, anzi con Frasquita così lanciamo anche il messaggio contro la discriminazione sessuale (Mercedès intanto apre una concessionaria, indovinate per che marchio). Ma il fatto che per una volta si sia parlato d’opera nei tiggì o sul web fuori dalle solite catacombe, credetemi, all’opera male non fa. Anzi.