Toscanini non è un feticcio
L’idea della globalità dello spettacolo operistico si è realizzata con Toscanini. Ma la sua lezione deve proiettarsi sul futuro
Otto titoli diretti con regolarità, quattro eseguiti e poi abbandonati (I lombardi alla prima crociata, Luisa Miller, Simon Boccanegra e Don Carlo), e tutto il sovrappeso aneddotico più o meno motivato - in più lettere il maestro si compiace del destino-identificazione con Verdi - danno sostanza storicoemotiva all’idea che Verdi sia stato l’autore per antonomasia di Toscanini: qualsiasi riflessione critica sull’arte direttoriale del maestro non poteva escluderlo. La riprova scientificostatistica la danno le pagine di cronologia che precedono: per quasi settant’anni (giugno 1886-giugno 1954) Toscanini ha dialogato dal podio con Verdi dedicandogli un quinto dell’attività di direttore d’opera, in alcune stagioni con un’assiduità quasi ossessiva. E a Verdi sono dedicate tutte le ultime registrazioni, per un lascito artistico-testamentario non casuale. Il riscontro simbolico e pubblico non ne ha, né aveva, bisogno. Il binomio Verdi-Toscanini, non sempre apprezzato nei primi anni scaligeri per l’irruenza con cui Toscanini venne a sbarazzarsi delle cattive abitudini esecutive sorvegliando che si tutelassero le indicazioni ritmiche e dinamiche d’autore, sebbene non “esaurisca” l’immagine popolare ed extramusicale della sua figura di direttore - del resto la “specializzazione” artistica è una gabbia da cui evadere, non una medaglia al valore - la compendia. Anzi la permea. Coincidenze biografiche e ragioni di fondo sono grimaldelli utili a scardinare le porte del laboratorio verdiano di Toscanini e a determinare - spiegandole - come ancor oggi le sue scelte estetiche, musicali e teatrali possano essere agevolmente inserite nella più generale cronologia-storia dell’interpretazione moderna del melodramma ottocentesco. Qualche opinione meno univoca suscita(ro)no alcune scelte vocali: sarebbe però uno sbaglio “accontentarsi” e non leggerle in prospettiva interpretativa: rammentano lo “strumentalismo delle voci”, uno dei lasciti interpretativi toscaniniani più originali. Oggi ammesso e invocato dai puristi e dai filologi esecutivamente “informati” che si occupano di teatro musicale pre-ottocentesco come antidoto - e consolazione, con l’attuale penuria di grandi voci - allo strapotere del canto, lo “strumentalismo vocale” allora fu innovativo e a suo modo provocatorio. Le esecuzioni di Toscanini indicarono con veemenza e ostinazione una diversa (quasi rovesciata) ed eccentrica prospettiva d’ascolto: imponendo una visione globale dell’opera e del teatro musicale - la centralità dell’orchestra non fu mai a scapito delle voci e del canto purché intelligente, espressivo e non troppo “libero” rispetto alle note d’autore - e proponendone una nuova valutazione e ricollocazione critico-estetica. Quelle scelte e opzioni analitico-esecutive oggi sono ancora dei modelli? Oppure devono essere considerate solo testimonianze da museo, documenti di una stagione eccezionale, irrimediabilmente perduta? Va detto che la concezione direttoriale verdiana nell’ultimo mezzo secolo si è evoluta non rimanendo sempre e ad ogni costo fedele all’alveo toscaniniano. Ribadendo che le “lezioni” storiche valgono tanto più quanto più sono propositive e proiettate al futuro, discusse e potenziate. Il “Verdi di Toscanini” rimane un’espressione artistica e interpretativa assoluta, da cui non si può prescindere ma da considerare una pedana di lancio più che invalicabile punto d’arrivo.