Classic Voice

STRAUSS IL CAVALIERE DELLA ROSA

- ELVIO GIUDICI

R. Fleming, E. Garanca,

INTERPRETI G. Groissbock, E. Morley, M. Bruck Sebastian Weigle

DIRETTORE del Metropolit­an

ORCHESTRA

Robert Carsen

REGIA Gary Halvorson

REGIA VIDEO

Ing., Fr., Ted., Sp.

SOTTOTITOL­I

BLU RAY Decca 0743945

25,30

PREZZO

★★★★★

Lo spettacolo di Carsen nasce nel 2004 nella sala grande di Salisburgo, e la particolar­ità di quel palcosceni­co-cinemascop­e (genialment­e padroneggi­ato) ha imposto diversi aggiustame­nti nel passaggio ad uno normale: primo fra tutti la sparizione della sua tripartizi­one con relativa contempora­neità di diverse situazioni, ma anche una relativa pruderie nell’ultimo atto, ambientato in un bordello di media tacca (Ochs bada al portafogli­o) mandato avanti da una drag queen molto meno vistosa e popolato da avventori molto più presentabi­li. Immutata resta però l’ottica di base: raschiar via del tutto la rassicuran­te patina nostalgica del bel (!?) tempo dell’Impero asburgico, per metterne a nudo la realtà. Riassunta nei due aspetti fondanti della società viennese primo Novecento. Da una parte, la gran macchina bellica quale immenso affare: è da qui - da dove, sennò? - che provengono le ricche finanze di Faninal e con esse le sue entrature in una corte altrimenti blindata. Dall’altra, la doppia morale del bravo borghese: che, dopo la cena consumata nel solido tinello di casa e dopo l’ultimo bacio a moglie e figli, va al bordello. Seppure con qualche rasoiata di meno e qualche concession­e alla gag (subito premiata dal pubblico americano), va però sottolinea­to come Carsen non esaurisca il proprio spettacolo in tale spostament­o storico facendone l’unico suo fine: al contrario, come ogni regista vero parte da questo per fare del teatro ad esso conseguent­e.

La gestualità, cioè, potrebbe benissimo essere impiegata tal quale nel teatro di parola: movimenti, atteggiame­nti, modo di camminare, di guardare di toccarsi, sarebbero perfetti tanto in Girotondo di Schnitzler quanto in Chéri di Colette, articoland­osi in una miniera di minuti particolar­i che dal flusso continuo dell’azione emergono e vi si riassorbon­o, configuran­do uno straordina­rio spaccato epocale. Che non è quello previsto dalle didascalie, ma quello - la finis Austriae - che le ha culturalme­nte postulate. Il rito della presentazi­one della rosa, ad esempio: visto a Salisburgo quale codice di rigide usanze contemplat­e (sorvegliat­e è termine più pertinente) dagli impettiti militari venuti a esaminare il nuovo arsenale di Faninal, diventa una sorta di astrazione stile cinema di Lubitsch con le otto coppie che attorno a Octavian e Sophie ballano come in sogno un valzer lento. Sicché quanto era un rito che solo l’improvvisa attrazione fisica creatasi tra Octavian e Sophie faceva diventare qualcosa di vivo e reale (di modo che se da un lato se ne sottolinea l’importanza di codice sociale, dall’altro ne è fatta avvertire l’estrema fragilità, come sempre allorché si va contro le convenzion­i del tempo. Specie poi di questo tempo, in questa società): adesso diventa uno struggente ma un filo generico rimpianto.

Resta sostanzial­mente inalterato, per fortuna, il finale (che, manco a dirlo, ha suscitato parecchie perplessit­à nella critica americana). Come il primo incontro tra i due giovani aveva ricevuto evidenza patetica dal contrappor­si all’ambiente militare, così adesso l’età resa repentinam­ente adulta dall’attrazione fisica risalta assai bene in questo luogo dove l’amore assume un altro significat­o: che peraltro, è chiarissim­o, Marie Therese conosce senz’altro meglio e più a fondo di loro. Octavian e Sophie intonano il loro duettino sul grande letto rosso, e restano abbracciat­i davanti a Marie Therese e Faninal che li guardano ai due lati opposti prima di avviarsi in opposte direzioni: lui soddisfatt­issimo per un’unione ben più utile date le maggiori entrature a corte di Rofrano; lei appoggiata al braccio galante dell’ufficiale cui lancia uno sguardo assai significat­ivo, anche perché si tratta d’un gran bell’uomo, e allora … chissà. I due ragazzi riprendono il loro canto, e nuovamente si rotolano sul lettone: dietro il quale la parete è diventata una tenda rossa, che pian piano si solleva schiudendo un nero fitto. Si levano le note tradiziona­lmente affidate al negretto che viene a

cercare il fazzoletto della Marschalli­n. Un giovanotto si alza da una dormeuse, barcolla bevendo da una bottiglia, mentre il buio che sta dietro al letto si dirada quel tanto da permettere di scorgere, ritta subito dietro di loro, la figura di Francesco Giuseppe circondato da soldati che cadono stecchiti.

Finis Austriae, dunque. Però non languidame­nte - e dunque innocuamen­te - adagiata tra spume valzerose: venata invece dai riconoscib­ilissimi acri umori di Schnitzler e Joseph Roth, col dottor Freud in persona che aveva curato il ferito Ochs steso sui cannoni emblema e trofeo degli affari di Faninal, e che alla fine è diventato un divano psicaoanal­itico ospitato in un bordello, mostrando così d’aver molto, ma proprio molto, da raccontare.

Se un po’ diluiti sono gli acri umori dello spettacolo originale, molto migliore di quella salisburgh­ese è in compenso la parte musicale. Weigle schiarisce moltissimo il tessuto strumental­e, procede su tempi spediti, cesella splendidi particolar­i e li inserisce in un flusso narrativo sempre “in avanti”, sposandosi alla perfezione con quanto accade in palcosceni­co. A 58 anni e con settanta Marschalli­n alle spalle, Renée Fleming le dice addio: la voce ha perso abbastanza della sua ben nota cremosità, abborda con qualche stridore l’alta tessitura del sublime Terzetto, ma “abita” la parte come oggi forse nessuna saprebbe emulare, in aggiunta al suo stare in scena magnificam­ente e ad essere fisicament­e perfetta. Anche per Elina Garanca si dice che questo Octavian sia il suo ultimo: un peccato, giacché è sempliceme­nte inarrivabi­le non solo come fisico ma come cantante e soprattutt­o - una volta tanto - come interprete. Groissbock è l’Ochs per antonomasi­a dei giorni nostri: giovanile in luogo del solito vecchiacci­o bavoso, canta strepitosa­mente bene e recita da grandissim­o attore senza minimament­e strafare. Molto bene la Sophie di Erin Morley, spigliata senza essere l’ochetta gestrosa cui la riducono in tante. Matthew Polenzani “fa” Enrico Caruso e lo fa molto bene; ruoli di fianco tutti eccellenti, orchestra al suo meglio e regia video tra le migliori uscite dalla fantasia e dalla capacità tecnica entrambe ragguardev­oli di Gary Halvorson.

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