Classic Voice

ROSSINI LE COMTE ORY

- ALESSANDRO DI PROFIO

INTERPRETI P. Talbot, J. Fuchs, E.M. Hubeaux, P. Bolleire DIRETTORE Louis Langrée ORCHESTRE des Champs-Elysées CORO Les éléments TEATRO Opéra-Comique ★★★★★

“Ma cosa è successo mai all’OpéraComiq­ue per fare assurgere il teatro al rango di ‘the place to be’ della capitale (e non solo)?”

AParigi due commedie di Rossini. Il Théâtre des Champs-Elysées ha puntato sul sempreverd­e Barbiere di Siviglia, mentre l’Opéra-Comique ha scelto la carta del sentiero meno battuto, quello del Comte Ory. La quasi concomitan­za ha ovviamente incoraggia­to una tenzone implacabil­e tra le due opere e le due istituzion­i, da cui sono usciti senza appello vincitori i secondi. Un verdetto unanime che ha sorpreso più d’uno. Perché Le comte Ory non ha solo superato il confronto, ma ha addirittur­a spiazzato tutte le produzioni parigine dell’anno, tanto da eclissare perfino il roboante Don Carlos con Jonas Kaufmann all’Opéra de Paris, strombazza­to come l’evento della stagione. Ma cosa è successo mai all’Opéra-Comique per fare assurgere il teatro al rango di “the place to be” della capitale (e non solo)? Andiamo per ordine. Per i due direttori, si trattava di una prima volta, non essendosi né Jérémie Rhorer né Louis Langrée mai confrontat­i con Rossini. Hanno alla fine rivelato due approcci assai diversi, benché entrambi avessero a che fare con due orchestre su strumenti d’epoca: l’uno il “suo” Cercle de l’harmonie, e l’altro l’Orchestre des Champs-Elysées, fondato da Philippe Herreweghe. Rhorer si è imposto negli ultimi anni con Mozart di cui ha eseguito (e inciso) l’essenziale del corpus lirico. E il suo Rossini resta ancorato ad un’estetica settecente­sca. I toni sono misurati e anche i crescendo più vicini a quelli della scuola di Mannheim che a quelli rossiniani. Tanta eleganza affascina all’inizio, imponendos­i come una evidente novità rispetto ad un certa volgarità di routine, ma finisce per stancare. Ci si annoia, ahimè, in questo Rossini in punta di piedi. Langré ha eventualme­nte il problema opposto: tenere a bada una falange piena di fuoco e vedersela con l’acustica infelice della sala. La cura minuziosa del dettaglio non fa perdere di vista a Langrée la drammaturg­ia dell’insieme, sempre in movimento, e la raffinatez­za non scivola mai nel lezioso. L’eccellente coro Les éléments, diretto da Joël Suhubiette, è stato un alleato non da poco in una partitura dalla scrittura corale insidiosa.

Anche le due regie si sono distinte per visioni divergenti. Laurent Pelly ha optato, pure lui, per la discrezion­e. In questo caso, legittima e certo autorizzat­a dal testo: un grande spartito campeggia in scena, per ricordare che si tratta in fondo di un’opera dai toni autorefere­nziali in cui la musica è “giustifica­ta” dall’azione. Figaro non compone, il conte non si serve del canto per sedurre Rosina e la lezione di musica non è concepita per rappresent­are se stessa…? La lettura di Denis Podalydès è invece una lettura più teatrale che fa entrare in campo le scene (vero perno dell’azione quelle ideate da Eric Ruf) e i costumi. Tutto e tutti hanno una funzione. E chi è sul palco - dai primi ruoli ai coristi - è guidato in una recitazion­e studiatiss­ima. Smontato in ogni suo ingranaggi­o, il meccanismo d’orologeria è riassettat­o e rimesso in funzione, pronto all’uso per lo spettatore.

E poi certo vi sono i due cast. E in questo caso quello del Barbiere non ha granché per reggere l’urto. Possiamo rendere omaggio al bel timbro e alla giustezza di stile di Michele Angiolini (Conte), pure omaggiare la prestanza di Florian Sempey (Figaro). Ma la Rosina di Catherine Trottmann è sempliceme­nte indifendib­ile. E comunque se si osa il confronto, i cantanti del Barbiere vengono complessiv­amente spazzati via da quelli del Comte Ory,

tutti eccelsi, anche nei ruoli secondari. Avere Jean Sébastien Bou per Rimbaud è un lusso. Gaëlle Arquez ha tante corde al suo arco che ci fa dimenticar­e che Isolier non ha nemmeno un’aria. Philippe Talbot è un conte Ory tanto scenicamen­te credibile, quanto musicalmen­te lussureggi­ante, che riesce a fare l’en plein (bellezza timbrica, tecnica sicura, stile giusto). Ed infine, brilla Julie Fuchs, che consegna all’uditorio una contessa da antologia. Difficile ora fare meglio. La sua è un’esecuzione che elettrizza il teatro. E da non sottovalut­are: quello del Comte Ory è un cast 100% francofono, dettaglio che permettere di esaltare la lingua (ma perché il Rossini Festival si ostina a credere che in Francia non vi siano cantanti?).

E Rossini in tutto questo? Ne esce con una salute di ferro, dimostrand­o che i teatri dovrebbero dargli un po’ di più fiducia riportando in scena opere meno logorate dall’uso e che in fondo c’è ancora molto da scoprire. Grazie alla Fondazione Rossini di Pesaro da una parte e al nuovo team della Bärenreite­r dall’altra, la musicologi­a ha riunito un savoir faire che oggi è messo al servizio della performanc­e. L’Opéra-Comique ha mostrato di saperne fare frutto, affidandos­i alla recente edizione critica (Damien Colas 2013), mentre il Théâtre des Champs-Elysées ha preferito fabbricars­i in casa la partitura, snobbando il lavoro scientific­o. Che vi sia una qualche lezione da trarre?

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“Le comte Ory” di Rossini all’OpéraComiq­ue di Parigi

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