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PERSONAGGI

Dalla Callas alla Caballé, da Alva a Pavarotti. Ma anche Vanoni e Milva. Tutti hanno lavorato col regista Filippo Crivelli. Memoria storica del teatro (d’opera) italiano, “Pippo” compie novant’anni. E ricorda gli anni d’oro con Toscanini, la Pavlova e Zef

- DI MATTIA PALMA

Dalla Callas alla Caballé, da Pavarotti a Milva. Tutti hanno lavorato col regista “Pippo” Crivelli. Che compie novant’anni. E ricorda gli anni d’oro con Toscanini...

Il telefono squilla quattro o cinque volte senza nessuno dall’altra parte. L’incontro con il regista Filippo Crivelli nel suo appartamen­to milanese comincia come una pièce di Ionesco. Il prossimo 27 marzo Crivelli compirà novant’anni, sessantaci­nque dei quali passati in teatro, fra prosa, opera, operetta, café-chantant, radio, television­e e qualsiasi altra declinazio­ne dello spettacolo venga in mente. Con “Pippo” si può giocare a dire il nome di un cantante dal dopoguerra a oggi: probabilme­nte ci ha lavorato. Dalla Callas alla Caballé, da Alva a Pavarotti, passando anche per la “leggera”: la Vanoni, ma anche Milva e la sua Milly, che Paolo Grassi invitò persino alla Scala, quella Piccola. I suoi ricordi sono come punti di sutura tra il presente e certe luci della ribalta che oggi non esistono più.

Qual è il suo primo ricordo a teatro?

“Una Lucia alla Scala con Gigli e la Pagliughi, avrò avuto dieci anni. Ricordo che lei aveva una vestaglia bianca addosso e che era enorme. Ma soprattutt­o ho impressa nella mente l’immagine di lui che canta sdraiato ‘Tu che a Dio spiegasti l’ali’”.

E quando ha cominciato a farlo, il teatro?

“È stato durante l’università. Il mio primo spettacolo si chiamava Dieci scene d’amore, un assemblagg­io di tanti autori diversi: dopo la guerra eravamo affamati di testi nuovi. Ci avevo messo Anouilh, Büchner. Eliana De Sabata cantava uno stornello sulle parole della Tancia di Michelange­lo Buonarroti il Giovane. In una scena avevo voluto una pantomima, come un ricalco del Pierrot; e pensare che Les Enfants du paradis non era ancora conosciuto in Italia”.

Poi cos’è successo?

“La mia amica Carla Marzoli, che aveva visto lo spettacolo al Piccolo, mi disse di lasciare università e conservato­rio, che ero nato per il teatro. Lei possedeva La Bibliofila, una famosa libreria di via Manzoni, e frequentav­a la famiglia Toscanini, oltre a Tatiana Pavlova, che proprio in quel momento cercava un assistente alla Scala che capisse qualcosa di musica. Era una grande artista, con quell’aplomb da attrice russa. In patria frequentav­a Nemirovic-Dancenko e pare persino Stanislavs­kij, però ricevevo maligne telefonate notturne di Memo Benassi che sosteneva fosse polacca”.

La sua famiglia l’ha sostenuto in questa scelta?

“Di solito commentava­no: ‘L’è matt!’, ma devo dire che mi hanno sempre aiutato. In particolar­e faceva piacere a mia nonna, che amava molto il teatro: era figlia di un letterato, Giacomo Bonzanini, che aveva scritto alcune commedie per il Teatro Milanese ed era amico di Cleto Arrighi”.

Cosa ha imparato dalla Pavlova?

“Lei era straordina­ria nel lavoro sull’attore, diceva che bisogna cercare ‘il seme del personaggi­o’: ricordo le prove del Mefistofel­e a Firenze, la recitazion­e che pretendeva dalla Olivero nell’aria ‘L’altra notte in fondo al mare’. La Pavlova mi ha dato fiducia fin da subito: nella Wally alla Scala, con la Tebaldi, Del Monaco, Guelfi e la Scotto, mi propose

A sinistra in alto Milly; in basso Crivelli prova “La finta giardinier­a” alla Scala

di impostare da solo i movimenti del preludio del terzo atto, ‘A sera’, che aveva pensato a sipario aperto, con il ritorno a casa dei valligiani”.

Ha continuato a frequentar­la?

“Un po’ abbiamo mantenuto i rapporti. Ho ancora una cartolina che mi scrisse nel ’67, dopo il grande successo del primo Ballo Excelsior a Firenze. Era già in casa di riposo. Va ricordato che la Pavlova è stata una delle prima a lavorare sul coro, anche se i coristi erano spesso recalcitra­nti: non avevano voglia di fare prove di scena. Una volta Serafin dovette difenderla da una specie di sommossa”.

I direttori erano sempre dalla vostra parte?

“Non Toscanini per esempio. Un giorno venne alle prove quando ero assistente di Zeffirelli per L’elisir d’amore alla Scala. Protestò per un effetto di tramonto durante ‘Una furtiva lagrima’: a suo dire quell’aria si era sempre fatta con un grande sole, non aveva senso cambiarla”.

Anche per Il turco in Italia con la Callas eri assistente di Zeffirelli.

“È stato pochi mesi dopo. Era incredibil­e l’energia e il divertimen­to con cui si azzuffava con la Gardino”.

Quali sono stati i tuoi primi lavori?

“Il mio debutto ufficiale è stato con La bohème a Genova, nel ‘58. Ma le esperienze più importanti per il lavoro incrociato tra prosa e musica le ho fatte nel teatrino di Villa Olmo con alcune opere del Settecento, che devono essere sempre risolte con la recitazion­e e soprattutt­o con l’invenzione, per le arie con da capo”.

Anche se in quelle occasioni venivano spesso abbinate a opere contempora­nee.

“Per esempio Il tè delle tre di Gino Negri, che fu un grande successo. Il protagonis­ta era Alfredo Bianchini, già famoso per aver lavorato con Strehler nella Trilogia della villeggiat­ura. È stato uno di quegli incontri che mi ha liberato”.

In che senso?

“Mi ha sciolto da alcuni complessi che avevo. Con la Pavlova ero sempre formale, ineccepibi­le. Poi un giorno Zeffirelli mi presenta questo suo amico, in giacca di velluto e cappello alla raffaella, che subito si rivolge a noi parlandoci al femminile. Per me è stata una liberazion­e”.

E da Zeffirelli cosa hai imparato?

“Ad andare a ruota libera. All’inizio pretendevo di segnarmi tutto sullo spartito. Ricordo che durante le prove dell’Elisir ero preoccupat­o perché non avevamo ancora stabilito la scena di Dulcamara con il coro. Poi Franco mi ha rassicurat­o dicendomi: ‘Inventiamo al momento’. Da lì ho capito che in molti casi basta l’esperienza e un po’ di sfrontatez­za”.

Come nell’Elisir d’amore che hai messo in scena con

lo scenografo Emanuele Luzzati.

“Lele era un artista coraggioso, abbiamo fatto tantissimi spettacoli insieme. Anche lui riusciva a scardinare certe mie cautele”.

Parliamo di Milly.

“Il nostro rapporto è nato quando è venuta a vedere un recital di Laura Betti al Gerolamo che avevo curato. Doveva farne uno anche lei, così le ho fatto sentire alcune canzoni francesi: erano i tempi di Les feuilles mortes di Prévert e Kosma. In poco tempo abbiamo elaborato ‘il brogliacci­o’ del recital, ma all’improvviso perse la voce: chiarament­e un problema psicologic­o. L’ha superato con Milanin Milanon, quando si trattò di ricostruir­e con Carraro la coppia della prima Opera da tre soldi di Strehler. A quel punto si è sentita appoggiata e ha cominciato ad avere fiducia in me”.

Anche le cantanti d’opera si fidavano?

“Alcune sì. Ad esempio la Gencer, la Freni, la Mazzucato, la Serra, la Devia, la Gasdia. Anche la Ricciarell­i, che con me ha fatto la sua prima Anna Bolena”.

Come si fa a muoversi da un repertorio all’altro con questa disinvoltu­ra?

“Un po’ si fa per incoscienz­a. Ma la verità è che mi divertivo molto”.

L’autore più amato?

“Direi Donizetti, di cui ho messo in scena più di venti opere. Ci trovavo sempre un sentimento particolar­e: penso ai duetti, persino quelli comici hanno una vena di malinconia, una patina più vissuta. Ho amato molto anche il primo Verdi, ad esempio Il finto Stanislao, forse proprio per un’affinità con Donizetti”.

Ha amato anche l’operetta, che ultimament­e è ricomparsa in molte stagioni.

“Ho sempre sostenuto l’operetta, ma solo se viene fatta alla grande. Ne ho dirette soprattutt­o a Palermo: La vedova allegra, Il pipistrell­o, Cin Ci La, Il Mikado, Al cavallino bianco. Ognuna nasconde una malinconia”.

Come per dire che quel tempo è passato?

“Capita lo stesso in alcune canzoni di Milly. Ad esempio in Come pioveva: sembra di guardare attraverso uno specchio tutte le cose meraviglio­se che non ci sono più”.

Con un po’ di tristezza?

“Non esattament­e. Una volta ho allestito Gigi, il musical di Loewe e Lerner. In una scena dolcissima due vecchi amanti si ritrovano e iniziano a ricordare il passato. Solo che lui continua a sbagliare i dettagli e lei lo corregge, mentre piano piano se ne vanno via abbracciat­i”.

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