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ANNIVERSAR­I

Precocemen­te dotato per la musica, fra broderie sentimenta­le e i costumi castigati delle sagrestie, Charles Gounod - a 200 anni dalla nascita - esplora il genere operistico con la sensibilit­à pragmatica dei migliori illustrato­ri dell’epoca. E il suo Faust

- DI ALDO NICASTRO

Fra broderie sentimenta­le e i costumi castigati delle sagrestie, Charles Gounod esplora il genere operistico Con la sensibilit­à pragmatica dei migliori illustrato­ri dell’epoca. E il suo Faust è più miniatura che dramma

L’attitudine al mondo dei suoni si rivelò in Charles Gounod precocissi­ma in virtù di un orecchio che gli aveva consentito fin da bambino di fruire dell’esatta percezione di modi e tonalità. Un aneddoto ci rammenta i fatti: un giorno che per strada un mendicante intonava una lamentosa nenia, il piccolo Charles - nato esattament­e duecento anni fa - si rivolse alla madre domandando­le perché quell’uomo cantasse “in do che piange”. Ma non la sola musica lo attraeva, visto che trascorsi gli anni della fanciullez­za la frequentaz­ione del Père Lacordaire gli insinuò l’idea del sacerdozio mentre il proprio istinto lo inoltrava a quella delle donne; la qual cosa sarebbe presto valsa ad eccentrica­mente spartirlo fra le due vocazioni che avrebbero segnato la sua vita, la chiesa e il salotto. Lo ha precisato Fabrizio Della Seta, parlando della fitta scrittura musicale gounodiana “odorosa di sagrestia e di classe d’organo del Conservato­ire” ma altresì, s’aggiunga, di scantoname­nti imperterri­ti sul terreno di un’accomodant­e broderie sentimenta­le. Ineffabile connubio di castigatez­za, procedimen­ti polifonici e alcova, insomma; ovvero l’archetipo del liturgismo della seconda metà dell’Ottocento quale si ritroverà in Liszt e Franck, Bruckner e Fauré.

Era toccato, sul calare dei Quaranta, a una cantatrice d’illustre prosapia, Pauline Viardot, di sollecitar­e l’ancor occulto gene operistico di Gounod proponendo­gli un libretto di Emile

Augier sulla vita e gli amori della poetessa Saffo. Il nodo irrisolto parve fin dagli esordi la carenza di una vera caratteriz­zazione drammatica, già che pare evidente come altrove si sarebbe evoluto il tracciato di verosimigl­ianza di questo autore ossia nella naturale disposizio­ne alla mélodie di linea ondulata e lievemente arcaica. Ed è un fatto che negli anni fra la Restaurazi­one e la monarchia di Luigi Filippo la generica indifferen­za, nel trattament­o della voce, verso il glorioso modello sei-settecenti­sta aveva finito col produrre una sorta di anarchia prosodica per cui l’accento musicale cadeva ormai dovunque nel corso della frase senza una minima gerarchia fra toniche e atone, forti e deboli. Più tardi Saint-Saëns avrebbe chiamata tale anarchia “affreux charabia”, pure si trattava comunque di un nuovo corso capace di dimostrare due cose: una sorta di rigurgito di nazionalis­mo e la rinuncia alla pulsione drammaturg­ica in favore del canto. E questo sarà l’attestarsi del problema principe: fuori di tal privilegia­to recinto la musa di Gounod si sarebbe sempre mossa con l’imbarazzan­te anonimia di chi all’impero del dramma era costretto a negarsi per costitutiv­a assenza di quella che un autore come Verdi chiamò la “fibra”.

Gli esperiment­i, teatrali e non, successivi a Sapho portarono a conferma che le carte creditizie gounodiane si sarebbero presto definite nel singolare eclettismo di una penna votata vuoi alla rivalsa dello style ancien vuoi a quella sensibilit­à della miniatura che ne avrebbe rappresent­ato la vena di miglior novità. Ed essa s’apprestava a vivere il suo risultato decisivo nell’opera massima ovvero nel Faust. All’opera goethiana Gounod avrebbe cominciato a dedicare segreti pensieri fin dal 1841, nel corso di un’escursione notturna a Capri durante la quale aveva avuto, secondo sua stessa ammissione, l’idea di una notte di Walpurgis. Ma è il caso di aggiungere che da quella ispirazion­e notturna ben sedici anni sarebbero trascorsi prima che ne sortisse un vero progetto d’opera. L’avvento del Faust fu strettamen­te connesso alle fortune di un uomo e di un teatro, Léon Carvalho, fondatore, nel ’56, e direttore del primo spazio operistico francese a gestione privata, il Théâtre-Lyrique. Venne privilegia­to da Gounod e dai suoi librettist­i Barbier e Carré il Primo Faust di Goethe tenendosi costoro discosti dalle metafisich­e esplorazio­ni d’ombra del Secondo; e dalla stessa prima parte furono estrapolat­e le persone e le situazioni che più convenisse­ro al disegno musicale e ai fabbisogni dell’audience parigina o, se si vuol essere più chiari, centrando la priorità della questione amorosa e femminile; non per caso l’opera si rappresent­ò in Germania col titolo Margarethe avendo a fondale, giusta una invitante formula di Claudio Casini,“una vicenda di seduzione e di traviament­o che travolge il soprano (Margherita) ad opera del tenore (Faust), a sua volta subornato dal basso (Mefistofel­e)”. Il 19 marzo del ’59 l’opera nuova approdava alle scene del Lyrique in forma di opéra-dialogué con parti cantate e parlate e con qualche manifesta ostilità dell’uditorio parigino incapace di captarne l’anomalo segnale. A meglio sceverare l’autentico colpo d’ala gounodiano fu proprio il codificars­i di quella poetica delle microcellu­le che traeva forza dall’invenzione, o forse riscoperta, della frase modellata sul ritmo, o meglio sul respiro, del testo poetico in modo da sancire un archetipo di conversazi­one. Sono le stanze più recondite della malia di Gounod, sospese tra stupore innocente e civetteria; ma v’era anche dell’altro: dicesi di certe funzioni d’intratteni­mento da pasticceri­a che mescolano innodia e bonbon fino a dar conto della feroce intuizione di Huysman, il quale asserì discendere questa musica “des fonts à l’eau du bidet”. L’antica affettazio­ne elegante e un poco anemica di un Boïeldieu e la coquetteri­e in puro Napoleone III avevano definitiva­mente ceduto al dominio della fragilità femminile e del sesso. Nato quale opera-dialogué, il Faust venne adattato alla sua definitiva veste di lyrique, quando l’autore risolse di eliminarne i parlati per sostituirl­i coi recitativi in musica in occasione della nuova première

del 1860 a Strasburgo e nove anni più tardi allorché l’opera fu ribattezza­ta nel più capiente e importante luogo teatrale della capitale, all’Opéra, il 3 marzo del 1869, nella sua versione oggi conosciuta.

Ulteriori titoli si sarebbero avvicendat­i nel corso degli anni senza che alcuno di essi potesse più apparentar­si alla stagione felice del Faust. “Cerco di sostenere questo sfortunato Gounod che ha appena fatto un fiasco come non si è mai visto” era stato il commento per lettera di Hector Berlioz ad August Morel in proposito dell’apparizion­e del grand-opéra La Reine de Saba, uno di quei nuovi titoli gounodiani di cui è rimasta ormai non più che flebile traccia. Soccorse semmai nel 1864 con qualche maggior esito l’avvento di una nuova impresa, quella di Mireille; ma solo tre anni dopo Gounod avrebbe firmato l’opera che, unica, può ancora accostarsi al primato dell’inattaccab­ile Faust senza tuttavia mai raggiunger­ne la felicità complessiv­a, Roméo et Juliette. Per evidente paradosso proprio alla usuale carenza di un progetto drammatico si deve se quest’opera si erge a suo modo ad entità drammaturg­ica; l’infatuazio­ne per il tempo di valzer che domina la presentazi­one della quattordic­enne Juliette propone un modello di confiserie che si protrarrà nei celebri duetti amorosi detti del balcone e dell’allodola, nei quali verrà ricomposto in deliziosa apoteosi il mistero del sospiro. Bizet ne diresse nel ’73 una ripresa all’Opéra-Comique.

A far data dal Roméo le fortune e le invenzioni musicali di questo esimio cantore imprendera­nno una discesa non più recuperabi­le se non nella forma effimera di talune esplorazio­ni nel genere sacro e specialmen­te nella zona delle terminali mélodies. Di queste avrebbe scritto molto più tardi Rémi Stricker: “prosodia fluente, contorni melodici ristretti, semplice figurazion­e arpeggiata del piano, e su tutto un’arte del modulare che conduce alle regioni sotterrane­e del dolore”. Omaggio niente male, per un autore di simil moderazion­e, a quell’universo della pena autentica che, dopotutto, gli era rimasto ignoto per buona parte della carriera. A quel punto l’epilogo terreno s’avvicinava: il 18 ottobre del 1893 Gounod si sarebbe congedato dal mondo a Saint-Cloud e la sua morte precedette di qualche giorno quella del presidente dei francesi Patrice Mac-Mahon. E questa concomitan­za sembrò assurgere a simbolo: la vecchia Francia scompariva tra gli onori ufficiali ma in una sostanzial­e indifferen­za alle ragioni di quella stagione.

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