Noi siamo l’IRRIPETIBILE
Assediati da Youtube e Spotify gli interpreti cambiano pelle. Anche quelli classici. Violinista, recitante, performer, Patricia Kopatchinskaja passa al concerto di nuova generazione di cui lei stessa è regista. Ed enuncia il manifesto di una nuova estetic
Anche scalza Patricia Kopatchinskaja corre più veloce di chi vuole irretirla in una definizione. Suonare senza scarpe, per la violinista moldava, è stato uno dei primi atti liberatori, “per prendere contatto - ripete spesso ai pochi che ancora non lo sapessero - con l’energia della terra”. Ma ora non è più una questione di sandali ripudiati. In gioco, da qualche anno, c’è una nuova idea dell’evento musicale dal vivo, “il solo modo che conosco per salvare la musica dalla virtualità”. Di quali concerti parla una violinista che ha prestato volentieri la voce al Pierrot Lunaire? Kopatchinskaja usa metafore gastronomiche: “Quando suono è come se cucinassi per gli amici. A volte tutto fila, e gli ospiti si alzano soddisfatti. A volte il cuoco sbaglia qualcosa”. Perché l’errore, nella cucina che Patricia ha rappresentato anche sul suo sito personale, non solo è ammesso, ma fa parte di un’esperienza da condividere. A sentirla parlare, reduce dal Concerto di Ligeti a Torino per Rai NuovaMusica, si incontrano tre lingue diverse. Tolto il russo, ci sono l’inglese, il tedesco e l’italiano (che capisce alla perfezione), impastati a grumi densi, con vigoria lessicale quasi sfacciata. Eppure dietro questa contagiosa vitalità randagia c’è anche una costruzione precisa. Lo si intuisce dai suoi concerti più sperimentali, che mostrano fili conduttori con una vera drammaturgia e una squadra di assistenti formata da video artist, light e sound designer. Dalla cucina di Patricia è nato “Bye bye Beethoven”, uno staged concert
che ha debuttato due anni fa ad Amburgo: tra Cage, Kurtág, Bach e ovviamente il caro Ludwig si rifletteva sul ruolo della musica e dell’esecutore. Poi è arrivato “Dies irae”, l’ultima ricetta di Patricia, ancora più audace, battezzata a Lucerna lo scorso autunno. Qui, superato il dato estetico, l’attenzione s’è spostata sui temi ecologici e umanitari (dal riscaldamento globale ai rifugiati delle guerre) in un arco temporale cha teneva insieme il gregoriano e Giacinto Scelsi. In un certo senso, Kopatchinskaja sta preparando il ritratto del concertista dell’avvenire, più simile al regista che al puro esecutore.
Lei si è definita un’eretica per quello che fa e per come lo fa. Aggiornerebbe la definizione?
“Se per eretico s’intende seguire solo quello che mi dice il mio gusto, il mio istinto e la mia testa, sì lo sono”.
C’è qualche eretico come lei nel panorama musicale della sua generazione?
“Teodor Currentzis credo sia una delle voci più forti della musica di oggi. Ma non tanto perché sa muoversi da Rameau a Sciarrino senza preoccuparsi di restare imbavagliato in un solo tipo di repertorio. È il modo in cui lo fa, senza paura delle reazioni esterne, senza regole se non le sue. Un altro ‘eretico’ è il violinista finlandese Pekka Kuusisto, che usa qualsiasi linguaggio gli vada a genio, dal folk all’elettronica fino a Sibelius. La sua è una vera wild overview, che ammiro molto”.
Ma non c’è il rischio di perdersi in questa galassia di linguaggi?
“L’obiettivo è l’opposto. Riconnetterci con noi stessi e poi ritrovare il senso primitivo del contatto tra esecutore e pubblico”.
Ha una sua ricetta?
“Sperimentare sempre, come sto cercando di fare nei miei concerti dove metto insieme musiche di epoche lontanissime, purché ci sia un filo rosso a motivare il loro accostamento. Credo però che un altro aspetto importantissimo sia tornare a parlare direttamente col pubblico”.
Intende durante la performance?
“Anche dopo. Quando suono in America quasi sempre le società di concerto mi fanno firmare contratti che prevedono l’impegno a fermarmi dopo il concerto. All’inizio lo trovavo strano. Dire qualcosa dopo lo spettacolo non è mai facile, non capivo bene come comportarmi, ma era chiaro che non si intendeva la firma dell’autografo. Il pubblico chiede molto di più, l’autografo è solo una
scusa per avvicinarsi. Così ho capito quanto importante sia quel momento”.
Che cosa ha imparato?
“Ad ascoltare. A sentirmi con le orecchie degli altri. Immaginatevi gli effetti che avrebbe questo esercizio dopo un concerto di musica contemporanea”.
Lo ha già sperimentato?
“Certo, e ho capito che l’unica strada per farla capire e apprezzare è spiegarla. Non basta suonarla e dire ‘arrivederci è stato bello’. Bisogna accompagnare questa musica alle parole. Per avvicinarsi alla pittura e alla letteratura basta essere curiosi. Ma la musica, specialmente quella dei giorni nostri, va incoraggiata con l’aiuto di un mediatore. So che è difficile, ma dovremmo cominciare a parlarne come se avessimo davanti dei bambini. Non fraintendete: non lo dico perché non ho fiducia nel pubblico. Lo dico perché dovremmo sforzarci di essere noi stessi come bambini. Curiosi di capire e di far capire”.
Tolta la definizione di concertista, che immaginiamo non le vada del tutto a genio, come si vede lei sul palco?
“Non sono un prodotto finito. Sul palco non porto una torta, ma la sto facendo lì per lì. Possibilmente con ingredienti sempre nuovi. Poi, certo, a volte le uova si rompono...”.
Lei sembra accusare implicitamente molti suoi colleghi di aver perso sincerità.
“Certamente molti hanno perso la gioia di suonare. E se il pubblico non vede gioia come fa poi a divertirsi? Credo che l’industria discografica, in questo senso, abbia una grossa responsabilità. Le sale di registrazione hanno segregato i musicisti alla ricerca del suono perfetto. Ma così facendo abbiamo smesso di fare musica e ci siamo votati alla chirurgia plastica. Ora abbiamo una faccia perfetta ma la gente non ci riconosce. E gli effetti si vedono quando ci esibiamo. Il vero compito del musicista è stare sul palcoscenico con tutto quello che comporta, imprevisti compresi. Tutto comincia da lì, dagli errori, dalla sincerità. E poi anche dalla disponibilità a guardare avanti. Dico sempre che il classico è come una nave: stiamo tutti in piedi a poppa a vedere quanto è bello il mare dal quale proveniamo, ma pochi si sporgono a prua per vedere cosa sta arrivando”.
Chi è disposto a mettersi in gioco fino al punto di considerare l’errore una componente indispensabile del proprio lavoro?
“Non è importante la singola nota, ma il senso di quello che stai suonando. Le persone devono capire perché stai suonando Galina Ustvolskaja - che mi ha cambiato la vita quando la ascoltai per la prima volta da studente e non solo come la stai suonando. Le tre regole per stare sul palcoscenico dovrebbero essere: non annoiare, non annoiare, non annoiare. Ecco perché se devo registrare preferisco farlo dal vivo”.
La sfida della musica dal vivo passa solo da questo atteggiamento inclusivo verso il pubblico? O ci sono altri fronti?
“Non solo questo, ma è il passaggio più importante. Se la musica non accetta il palcoscenico vivo, fatto di carne vera, è destinata a morire. Viviamo un’epoca in cui con Youtube e Spotify puoi ascoltare tutto Bach, apparentemente perfetto, senza uscire da casa. Messa così, la battaglia è persa. Perché dovrei spendere soldi per uscire e ascoltare musica live? Eppure a un concerto ascolti l’irripetibile. E anche io devo sforzarmi di esserlo. Non sono mai la stessa Patricia due volte di fila”.
Dies irae Un concerto messo in scena con musiche di Biber, Crumb, Hersch, Lotti, SánchezChiong, Scelsi, Ustvolskaya. Patricia Kopatchinskaja violino, concept e direzione artistica (Festival di Lucerna)