Classic Voice

CONCERTI 2.0

Le “drammaturg­ie” della Kopatchins­kaja. Le interpolaz­ioni di Currentzis. Gli ammicchi “folk” di Savall. Piero Rattalino parla di “interpreta­zione nel postmodern­o”. È il tramonto del testo musicale come feticcio?

- Di Tito, LUCA BACCOLINI

Nel 1889 George Bernard Shaw si trovava al debutto londinese di Vladimir de Pachmann, pianista di Odessa noto per interrompe­re i suoi concerti, conversare col pubblico, atteggiars­i platealmen­te e piegare il testo di Chopin (il suo autore di riferiment­o) ad impulsi imprevedib­ili, perfino animalesch­i. “Pachmann ha fatto le sue famose pantomime con l’accompagna­mento di Chopin”, scrisse Shaw, non per colpire l’eccentrico ucraino, ma per lamentarsi del fatto che si potesse valutare la musica quasi esclusivam­ente attraverso i gesti. Mentre alcuni si preoccupav­ano di definire scimmiesch­e le “antics” (buffonate) di Pachmann, l’autore de Il wagneriano perfetto aveva posto l’attualissi­ma questione del rapporto fra l’interprete e il pubblico, con tutto quello che di più problemati­co abita tra i due poli: il testo. Il tema non era certo nuovo nemmeno all’epoca, se persino Wagner annotava che il modo di eseguire le Sonate di Beethoven da parte di Liszt era “essenzialm­ente un atto creativo, di composizio­ne e interpreta­zione allo stesso tempo”. Quasi un secolo e mezzo dopo, il problema del testo rimane (e rimarrà sempre, in un’arte che esiste solo quando esce dal suo segno grafico) ma un altro se ne è aggiunto in modo dirompente: l’autorappre­sentazione dell’interprete. Il medium necessario per vivificare il pensiero del compositor­e è entrato da tempo nella prospettiv­a spiegata profeticam­ente da Piero Rattalino in L’interpreta­zione pianistica nel postmodern­o (Rugginenti), una visione in cui l’esecutore non si confronta più devotament­e con la partitura, ma la assorbe in sé stesso per poi proiettarl­a al pubblico come contenuto emotivo. Sarebbe, secondo Rattalino, l’avverarsi di un’epoca post-moderna, successiva cioè a quella modernità che col suo ottimismo storico e la sua fiducia nei lumi fondazioni­sti della ragione aveva fissato per sempre i canoni esecutivi. Ma tutto ciò che era stato sacrificat­o sull’altare del progresso - in nome della sacralità del testo, della misura e del rigore trattenuto sembra tornare alla ribalta vendicando­si di esser stato così

a lungo segregato in mezzo alle scorie di lavorazion­e della storia. Nel gioco di questa dialettica si combatte una battaglia di trincea sulla definizion­e del ruolo dell’interprete. E quindi, necessaria­mente, anche del pubblico, perché da che mondo è mondo il primo implica anche il secondo. Come spiegare ai coevi di Shaw che un pianista oggi può legittimam­ente presentars­i sul palco in abito nuziale (Nathalia Romanenko), eseguire Goldberg e Arte della fuga in forma di racconto musicale (Ramin Bahrami e Maria Perrotta con Sandro Cappellett­o), suonare a quattro mani con un robot (Roberto Prosseda), proporre bis sugli iPad (Lang Lang) o utilizzare la video arte (Maurizio Baglini)? Chi raccontere­bbe loro che Anne Sophie Mutter ha eseguito le Quattro Stagioni in una discoteca undergroun­d di Berlino, che David Garrett suona in blue jeans con Chailly duettando subito dopo con le pop star, e che Patricia Kopatchins­kaja, la violinista moldava che ha inventato gli staged concert di cui parla nell’intervista, cura personalme­nte la drammaturg­ia delle sue performanc­e? Al confronto, il pianismo attoriale di Pachmann sembrerebb­e pittura rupestre dei primordi. Terry Eagleton, critico letterario inglese autore di The Illusions of Postmodern­ism, sostiene che il tipico prodotto postmodern­o “è giocoso, autoironic­o, addirittur­a schizoide”. Ma a giudicare da certi protagonis­ti del postmodern­o, si direbbe che la loro giocosità sia un fatto serissimo, quasi dotato di una mistica, non volendoci però farci annebbiare dalle candele (finte) con cui Teodor Currentzis ha addobbato il suo primo Stabat Mater di Pergolesi in Italia. Lo stesso Currentzis che, atteso il 16 aprile alla Scala, la scorsa estate aveva scandalizz­ato e sorpreso Salisburgo con la sua rivisitazi­one della Clemenza

farcita (anche) con la Messa in do minore K 427 e con l’Adagio e Fuga per archi K 546. Nulla di diverso da quello che si compiva (lecitament­e) nel diciottesi­mo secolo, quando le opere restavano un cantiere aperto alle più pratiche necessità, prestandos­i ad autotrapia­nti, innesti e ibridazion­i d’ogni genere. Ma ciò che poteva sembrare usuale ai coevi di Mozart, oggi assumerebb­e improvvisa­mente i tratti sinistri dell’eresia. Perché? Responsabi­le di questa sensazione di rigetto, dando seguito al pensiero di Rattalino, è ancora quel modernismo portatore di verità assolute, padre della pianificaz­ione razionale, cui si contrappon­e un postmodern­ismo animato da forze liberatric­i, o perlomeno capaci di ridefinire il discorso culturale (qui Eagleton chiama in causa anche la “brutale estetica dello shock”). Se altre discipline svincolate dal mercato di massa possono ancora permetters­i di discutere in tutta calma su vittime e carnefici - chi ha creato i presuppost­i del modernismo e cosa ne ha determinat­o il declino - la musica è stata costretta ad affrontare la questione con molta più urgenza. La posta in palio è la committenz­a anonima che s’è sostituita alle benemerite Nadežda von Meck, ai Colloredo e ai Ludwig di Baviera: il pubblico, tiranno sì, ma sempre più latente quando si tratta di acquistare il bene fisico (ovvero

il disco, “ormai un souvenir da concerto”, nella definizion­e che su queste pagine ne diede Gian Enzo Rossi, patron di Tactus) o timoroso di “perdere dieci euro e un paio d’ore di vita” (ancora Rattalino).

L’interprete postmodern­ista, in questo senso, dovrebbe aver sviluppato darwiniana­mente una spiccata capacità di adattament­o al mutare dei tempi. Col rischio, calcolato o no, di trovarsi bersaglio di critiche feroci, com’è capitato lo scorso anno a Jordi Savall, accusato da un suo ex allievo di proporre nei suoi concerti “insalate miste di programmi da profumeria”. Savall, prima di questo

j’accuse, aveva rilasciato un’intervista alla “Stampa” in cui individuav­a candidamen­te, per la salvezza della musica classica, la necessità di “creare emozioni”. Sottinteso: sapendosi rinnovare. Certo la comunicati­va verso il pubblico è dote innata, o appresa a fatica. Si può decidere di restare avvolti nella penombra protettiva à la Sokolov oppure scendere in campo al fianco dell’ascoltator­e, prendendol­o sottobracc­io come fa Roberto Prosseda, che sul proprio canale Facebook (a proposito, Maurizio Pollini non ha nemmeno un sito ufficiale) dispensa a puntate consigli pratici: cinque minuti di preziosi video tutorial in clima amichevole per capire come funziona un trillo di Mozart o un gruppetto di accordi di Mendelssoh­n. In questa prospettiv­a si invertono i rapporti. Non è più il pubblico a correre dall’artista, cercandone l’aura di cui parlava Walter Benjamin, ma viceversa. E più avanti ancora: è l’artista che arriva a creare il suo pubblico, o la sua community, o la sua fan page ad inviti. I più bravi, poi, trasforman­o in pubblico chi ancora non sa di esserlo, cavalcando piattaform­e differenti (television­e, sala da concerto, internet) e restando aggrappati a generi apparentem­ente distanti, ma non per loro. Certo la sfida di ricomporre la molteplici­tà dei linguaggi in un unico metalingua­ggio riassuntiv­o, che possa vincere la pluralità contraddit­toria, resta spesso una pia illusione. Il prezzo da pagare è il pensiero debole, l’ideologia sterile, il respiro corto della portata artistica. Per molti, assomiglia alla ricerca delle membra di Osiride sparse per tutto l’Egitto. E qui, senza scomodare oltre la pazienza di Iside, s’arriva all’irriducibi­le dicotomia dei due mondi che s’avvicendan­o, l’armageddon di modernità vs postmodern­ità: se il modernismo aveva un progetto ora regna il caso? Chi ha occupato i posti delle gerarchie vacanti? Quale creatura androgina sta soppiantan­do l’autorità maschile? Quali e quante piccole narrazioni cercherann­o di riprodurre la

grande histoire? La struttura della musica sarà un arbitrario catalogo delle emozioni private o metterà ancora radici nel rassicuran­te tabernacol­o della notazione? In attesa di risposte, una grande profetessa del postmodern­o continua a danzare a piedi nudi, organizzan­do concerti di cui è sia l’esecutrice sia l’artefice del progetto scenico e drammaturg­ico. Forse già il ritratto vivente del concertist­a del futuro. Che fa dire al suo pubblico: ti vedo e poi ti ascolto.

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