“UN CLASSICISMO SUI GENERIS, PERCORSO DA FREMITI PREROMANTICI CHE I BRAVI OLYMPIQUES VALORIZZANO ASTENENDOSI DA ANTISTORICHE SCAPIGLIATURE”
Con iniqua e asinina sentenza di cui si è riferito su queste pagine, un giudice francese ha inibito al Concert de la Loge Olympique di fregiarsi del suo logo, ispirato a quello di una congrega di massoni filarmonici del Settecento parigino ma contestato dal locale Comitato Olimpico come plagio di marchio depositato. L’ensemble diretto dal giovane violinista Julien Chauvin si è adeguato tirando una pecetta obliqua sull’aggettivo, ancora parzialmente leggibile su questo cd. In testa al quale sta una delle sei “Parigine” di Haydn: la n. 83, tardivamente sottotitolata “la Gallina” sul filo di accostamenti zoologici che guadagnarono alla n. 82 il nomignolo “l’Orso”. Di tali bislaccherie Chauvin e soci si curano poco; anzi si mostrano filologi al quadrato scartando la vulgata Bärenreiter in favore dell’autografo conservato alla Nationale e rispecchiato nell’edizione Imbault del 1787. Basterebbe questo a raccomandarne l’acquisto; si aggiunga l’approccio giustamente umoristico alla pagina haydniana, che sùbito conquista l’ascoltatore associando al tragico primo tema in sol minore, molto Sturm und Drang, lo zampettare degli oboi nel secondo, e via spiazzando. Secondo la formula “Haydn e dintorni” praticata anche dal Giardino Armonico, al pezzo forte sono associati due lavori strettamente coevi. Uno celebre ma non troppo - il Concerto K 153 di Mozart, anch’esso pubblicato a Parigi nel 1787 e qui distillato in souplesse dal fortepiano di Justin Taylor in fitta gara con un nutrito organico di fiati - e uno pressoché sconosciuto: la sinfonia Op. 4 n. 3 di Marie-Alexandre Guénin, un allievo di Gossec visibilmente influenzato dallo stile di Mannheim. Riflessi laterali di un Classicismo sui generis, percorso da fremiti preromantici che i bravi Olympiques valorizzano astenendosi da antistoriche scapigliature. Imperdibile.
ne di storia della musica. Vi è collocata al centro, infatti, la Sonata n. 2 in Mi minore (1898) di Ferruccio Busoni, che vanta tanti e tali punti in comune (tematici, stilistici, armonici, formali) con i pezzi che la precedono e la seguono da costituire un vero e proprio ponte “postumo” tra di essi. Si tratta cioè della terza (probabilmente la più rappresentativa) delle sei Sonate per violino di Bach (quella in mi maggiore Bwv 1016) e dell’ultima di quelle di Beethoven, quella in sol maggiore op. 96.
Il bello del disco però è che tale ponte si estende però anche al piano interpretativo. I coniugi András Schiff e Yuuko Shiokawa eseguono questa “tesi” suonando le mirabili Sonate di Busoni e di Beethoven con la stessa asciutta, ferma oggettività con cui snocciolano l’incedere forte e sicuro della congenere pagina bachiana. Poco o niente vibrato lei, poco pedale lui: il che significa cercare nelle linee, e non al di fuori di esse, il dovuto colore espressivo. Cosicché tra il classicismo di Beethoven e il neoclassicismo di Busoni emergono comunanze spirituali non meno evidenti di quelle, più che note, che legano l’arte di Busoni a Bach.