SCIARRINO
LUCI MIE TRADITRICI
INTERPRETI E. Labourdet, R. Bergman, M. Taylor, S. Olree
DIRETTORE Luigi Gaggero
ENSEMBLE Ukho
REGIA Sasha Andrusyk
TEATRO Opera di Kiev ★★★★★
“Un ‘recitar cantando’, tormentato, nevrotico, rabbioso, ma sempre attento alla parola, gesto vocale capace di sostenere musicalmente tutta l’opera, e di svelarne tutto il potenziale drammatico”
Dopo Limbus di Stefano Gervasoni e Pane, sale, sabbia di Carmine Emanuele Cella, con Luci mie traditrici di Sciarrino si è completata una trilogia di opere italiane contemporanee messe in scena all’Opera di Kiev, e preparate con cura estrema dal giovane Ukho Ensemble (fondato nel 2015) diretto da Luigi Gaggero. In questa prima
ucraina dell’opera di Sciarrino, grande attenzione è stata riservata al canto. La forza di questa tragedia, di un uomo costretto a lavare il proprio disonore col sangue, risiede proprio nel canto, nei dialoghi rapidi e sussurrati, nel tipico stile vocale fatto di lunghe messe di voce e rapide desinenze che è uno dei marchi di fabbrica di Sciarrino: Gaggero non lo ha parò trattato come una nuova tecnica di coloratura, come una forma di virtuosismo vocale, ma piuttosto come un “recitar cantando”, tormentato, nevrotico, rabbioso, ma sempre attento alla parola, come un gesto vocale capace di sostenere musicalmente tutta l’opera, e di svelarne tutto il potenziale drammatico. E questo anche grazie all’ottima prova dei quattro interpreti: Esther Labourdet (la Malaspina), Rupert Bergman (il Malaspina), Michael Taylor (l’Ospite), Stephan Olree (il Servo). Anche la trama strumentale sospesa, piena di fremiti, turbolenze, di pulsazioni sorde e impeti frenati, appariva come un prolungamento della recitazione, in grado di materializzare flussi di coscienza. In questo senso, “ingranava” molto bene con la regia di Sasha Andrusyk e le scene della giovane Katerina Libkind, che miravano a cogliere la natura psicanalitica dell’opera, attraverso una rete di simboli e di simmetrie (ad esempio la coppia ospite e servo come una proiezione della coppia dei Malaspina). La scena era dominata da due archetti in stile neoclassico, separati da un piccolo binario sul quale scorrevano delle sculture simboliche (di Alexander Kutovoy): un’enorme rosa bianca, un cavallo grigio ribaltato, che il duca cavalcava per raggiungere la duchessa, un cameramen di cartone con cinepresa e carrello, che spiava il drammatico dialogo tra i Malaspina sull’amore e sulla morte. L’idea del declino, della violenza, del tradimento era data anche dall’illuminazione notturna, bluastra e da altre “allegorie”: una grande siepe sullo sfondo improvvisamente si smembrava, svelando di essere composta dalle cinque lettere della parola “onore”; uno dei due archi nel secondo atto era ricoperto di cellophane, come fosse in fase di restauro, e diventava il baldacchino sotto il quale il servo, silenziosamente, accoltellava l’ospite. Carichi di significati anche i costumi di Olga Listunova, che con una certa ironia, faceva indossare ai quattro personaggi tute da piloti di Formula 1 (l’ospite arrivava in scena anche con il casco sottobraccio), con tessuti rifrangenti e numerose scritte e immagini cucite sopra. Sembravano loghi pubblicitari, invece erano frammenti poetici del libretto: “я кохаю тебе
вічно” (V’amerò sempre) e
“нічим і всім” (nulla e molto) sulla tuta della Malaspina, “сутінки, настаньте” (Tenebre,precorrete) e “прощавай”
(a Dio) su quella del Duca, “мої
облудні очі” (Occhi miei tradittori) su quella dell’ospite,
“до самої смерті” (fino alla morte) su quella del servo