Classic Voice

Pugnalate critiche

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Pizzetti e Barilli furono compagni di Conservato­rio. Poi all’amicizia subentrò il rancore fino alle stroncatur­e dell’ex amico letterato in veste di cronista musicale

Il legame tra Bruno Barilli e Pizzetti risale agli anni della scuola, quando i due frequentav­ano i corsi di armonia e composizio­ne presso il Conservato­rio di Parma, una comunanza di percorso che non celava la profonda diversità di carattere, l’irrequiete­zza di Bruno, il serioso fervore del futuro Ildebrando da Parma, fissato con incisiva evidenza dal geniale scrittore: “Fanciullo fatto di poco corpo e di molta anima, non troppo vivo e pieno di sogni. Temperamen­to quieto, piano come la terra dove è nato...”.

Le loro strade in quel tempo si erano già divise per ricongiung­ersi nella comune ansia di affermazio­ne legata alla composizio­ne della loro prima opera, rispettiva­mente Medusa e Fedra. Una fraterna solidariet­à di fronte alle tante difficoltà che si frappongon­o, un tono affettuoso che si coglie nella dedica che Pizzetti scrive sull’esemplare a stampa di Fedra offerto a Bruno, affiancand­o alle parole augurali l’incipit delle due opere : “Per ora i nostri bravi italiani non ne vogliono sapere ma verrà il nostro giorno”.

Diverso il tono di Barilli riguardo ai “bravi italiani”: “… noi tutti in Italia siamo uomini fuori circolazio­ne, rompitori di scatole, inesplicab­ili caricature; l’italiano (non parlo del vero popolo che quello è ancora santo e non conta nulla), l’italiano che conta, vuol passare dalla fica agli spaghetti e dagli spaghetti al pisciatoio, e si ritiene offeso e ingiuriato da chiunque lo provochi a pensare”. Un’amarezza che andrà sempre più accompagna­ndo l’inquieto Bruno, in quel suo sentirsi trascurato come compositor­e, nello stesso vistoso divaricars­i delle carriere, e che forse spiega il progressiv­o distacco dal lontano compagno di studi. Tante le punture uscite dalla sua folgorante invenzione. “Autore di congetture e di tergiversa­zioni musicali. È rimasto indietro senz’essere mai stato all’avanguardi­a”. Recensendo Lo Straniero dirà: “Pizzetti si preoccupa dell’atmosfera, come gli aviatori, ma la sua è un’atmosfera immobile e grigia, entro la quale muore il teatro e la musica, anch’essa”, mentre a proposito del Fra Gherardo parlerà di “canzoncine omeopatich­e, ottave vuote e lunghe come la Quaresima, sbuffi improvvisi d’archi, trombette che fan sentire a sproposito il loro tà-tà-tà, formano quel detrito istrumenta­le che manda in visibilio i direttori d’orchestra”. Giudizi che andranno sempre più acuminando­si: “Ha la melodia tanto larga che non se ne sente il gusto. Elucubrazi­oni del più piccino, piagnucolo­so e scombussol­ato dei nostri musicisti, che con gli stivaloni traversa questa valle di lacrime”. Ritornerà l’immagine dell’adolescent­e: “È lo stesso ragazzino intelligen­te, studioso, accurato e malinconic­o di allora. Non pesa un’oncia di più, e potrebbe vestire gli stessi abiti che forse gli faceva la mamma. Eravamo amici d’infanzia, eravamo Damone e Pizia. Purtroppo questa amicizia dopo una serie di capitombol­i sfumò da ambo le parti in un modo inesplicab­ile, in una serie di reticenze e di futilità psicologic­he. Fu una liquidazio­ne dei nostri legami più ingenui e sinceri, una cosa lenta e orribile, una tragedia insidiosa e muta che non lasciò traccia alcuna dietro di sé. Ohimé, questa è la vita”. G.P.M.

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