CAGLIARI
BUSONI
TURANDOT
PUCCINI SUOR ANGELICA INTERPRETI T. Romano, T. Richards, F. Adami, G. Sagona (Turandot); V. Tola, E. Shkoza (Suor Angelica)
DIRETTORE Donato Renzetti
REGIA Denis Krief
TEATRO Lirico
★★★★
“Questa Turandot non ha niente a che fare con quella pucciniana. Per Busoni l’opera è favola irreale, in bilico tra gioco e ironia, sarcasmo e magia”
Con una scelta fuori dal comune, il Lirico di Cagliari ha inaugurato la stagione con la rara Turandot di Ferruccio Busoni, il compositore toscano di nascita e germanico di cultura e formazione: visse così tanto a Berlino da essere considerato - negli anni del becero nazionalismo - “straniero”. Unico neo dell’attesa operazione è dunque quello di aver scelto la traduzione italiana di Oriana Previtali Gui al posto del libretto in tedesco. È vero, Busoni scrisse di aver composto le musiche di scena (1905) per una rappresentazione della fiaba di Gozzi - da cui l’opera discende (Zurigo, 1917) - pensando al testo italiano d’origine: e l’allusione alla presenza delle maschere che dialogano con l’Imperatore cinese in veneziano è un indizio dell’ispirazione linguisticamente ambigua dell’opera. Ma l’alternanza di parlato e pezzi chiusi non può non fare pensare a quella tradizione del Singspiel che Busoni cita con riferimenti precisi al mozartiano Flauto magico: la sua è l’ultima manifestazione d’amore della cultura tedesca per Gozzi. Pensata in dittico con Arlecchino, a Cagliari viene data insieme alla quasi contemporanea e altrettanto centenaria Suor Angelica. Puntando dunque sull’incolmabile distanza tra Busoni e Puccini: e infatti questa Turandot non ha niente a che fare con quella pucciniana. Per Busoni l’opera è favola irreale, in bilico tra gioco e ironia, sarcasmo e magia.
Così la sua principessa di gelo - sconfitta agli enigmi - non ha nessun problema a innamorarsi di Kalaf: la fiaba ha la meglio sul dramma. La voce piena, vigorosa, ma molto duttile di Teresa Romano le consente di passare dalle brillantezze argute agli affondi parawagneriani. Significativa anche la presenza del secondo personaggio femminile: Adelma (la brava Enkelejda Shkoza), rifiutata da Kalaf, ora si vendica rivelando a Turandot il nome dell’eroe, come una Liù macchinatrice. L’Altoum di Gabriele Sagona, l’imperatore che vuole a tutti i costi ammogliare la figlia con l’eroe cantato con slancio e smalto da Timothy Richards, è una parodia affettuosa di Sarastro. In linea con la temperie neoclassica e ludica (“La piacevole menzogna dell’opera” dice Busoni) la presenza delle loquacissime maschere, Pantalone, Tartaglia e il Truffaldino di Filippo Adami (la sua intonazione è da migliorare), protagonista di un’aria che è uno scioglilingua vocale in omaggio al Monostato mozartiano. Il meraviglioso di Busoni non è il fiabesco-incantatorio: lo dice una partitura “antiretorica” nei colori eppure cosparsa di timbri puri e intriganti soluzioni risciacquate nelle armonie pentatoniche. Donato Renzetti ne fa una ricostruzione precisa ma un po’ blanda e indistinta: mancava l’individuazione e registrazione delle individualità strumentali preziose e sfingee. Nella pucciniana Suor Angelica al contrario il maestro abruzzese, protagonista della meritevole attenzione che il Lirico di Cagliari sta destinando negli anni a un sorprendente Novecento italiano post verista, è più sensibile e personale, appassionato, anche a costo di compromettere l’equilibrio espressivo dell’elegia pucciniana. La vocalità accesa, vibrante, di Virginia Tola non aiuta a trovare la misura che invece possiede la Zia Principessa della stessa Enkelejda Shkoza. Il progetto di Denis Krief, autore di regia scene e costumi, è unitario scenograficamente: una struttura lignea astratta che è il kafkiano palazzo imperiale di Pechino e il claustrofobico chiostro di Suor Angelica. Il gioco registico va invece in direzione opposta. In Turandot Krief ricrea l’atmosfera da spartano teatrino dell’arte e distilla un registro comico insospettato e necessario, declinandolo con movenze cabarettistiche insistite ma non improprie. In Suor Angelica detta una recitazione psicologicamente viva e penetrante nel dramma umano e sociale di una suora-madre suicida, senza ignorare col sapiente gioco di luci e apparizioni la parallela dimensione estenuata e visionaria della drammaturgia d’autore.