REGGIO EMILIA
SCHUMANN
PAPILLONS
BRAHMS INTERMEZZI E CAPRICCI OP. 76 SCHUBERT SONATA D 960 PER PIANOFORTE PIANOFORTE Arcadi Volodos TEATRO Valli
★★★★★
“Schumann, Brahms e Schubert, triangolo magico in cui il virtuosismo perdeva ogni motivazione esibizionistica per farsi veicolo di poesia”
Quando anni fa Radu Lupu mi suggerì di ascoltare Volodos rimasi sorpreso chiedendomi le ragioni di tale interesse per un interprete che pareva collocarsi lungo coordinate assai distanti, quelle che avevano richiamato l’attenzione sul pianista pietroburghese sbalzato alla ribalta internazionale come uno dei più strabilianti virtuosi, che si cimentava con le sfide più rischiose di Horowitz, giocando sulla sorprendente spettacolarità di certe iperboliche trascrizioni, oggi da lui stesso del tutto accantonate, a testimoniare come l’immagine sia andata progressivamente smontandosi per lasciar spazio a quella ben più avvincente del musicista. Come ha mostrato il programma del concerto tenuto al Teatro Valli di Reggio Emilia, concentrata sui nomi di Schumann, Brahms e Schubert, triangolo magico in cui il virtuosismo perdeva ogni motivazione esibizionistica per farsi veicolo di poesia: quella che pervade i fantasmi del giovane Schumann che Volodos ha evocato nell’esecuzione di Papillons con una qualità inventiva del suono rivelatrice del fervore immaginativo che animava i programmi del musicista di Zwickau, nel conti-
nuo rimbalzo di allusioni, di memorie, di atteggiamenti, tra il sognante e il grottesco - lo spirito dell’Humor appunto che hanno trovato nella mobilissima tavolozza di Volodos una avvincente tensione evocativa. Momento fatato da cui l’interprete ha preso le mosse per calarsi nell’universo gremito del Brahms degli Intermezzi e Capricci dell’op. 76, un Brahms della maturità che distilla la propria intimità da una trama complessa, rischiosa se a districarne le fila non si possegga il dominio della polifonia e della gradazione del suono come ha mostrato Volodos. Poi il viaggio estremo con Schubert, quello dell’ultima Sonata, in si bemolle, carica di premonizioni, insidiata dall’ombra di Beethoven che l’interprete ha esorcizzato scegliendo un cammino diviso tra le luci fantasmatiche di un suono portato al limite e la pressione di un presente fatto di emozioni e di sorprese quali il passo erratico del musicista viennese riserva senza fine; sempre con la consapevolezza, pareva dirci Volodos, che la coerenza formale non era un vincolo imposto dall’esterno ma una ragione intrinseca della narrazione più segreta, “la forma è il recipiente dello spirito”, diceva Schumann, proprio pensando alle Sonate schubertiane. Concezione ribadita dall’esecuzione fuori programma - tra il delirio del pubblico - dopo due Intermezzi di Brahms dell’op. 117 dell’ultimo movimento della Sonata in la maggiore, nata dallo stesso grembo di quella in si bemolle, ad essa legata da una complementarietà sconvolgente nel renderci partecipi del gorgo oscuro sotteso al ridente paesaggio schubertiano.