PIACENZA
PONCHIELLI
LA GIOCONDA
INTERPRETI S. Hernandez, F. Meli, S. Catana, A.M. Chiuri, G. Prestia, A. Smimmero
DIRETTORE Daniele Callegari
REGIA Federico Bertolani
TEATRO Municipale
★★★★
“Accanto a lei, Francesco Meli trova in Enzo un ottimo personaggio. Timbro come e più di sempre fascinosissimo, grande attenzione alle sfumature e ai ripiegamenti lirici in luogo delle spampanate d’effetto”
Sempre stata bersaglio, quest’opera, della critica più seriosa, cocciutamente tetragona ad accettare il melodrammatico che certi melodrammi ostentano: e di sfacciatamente, reboantemente melodrammatico, Gioconda talmente trasuda da essere stata spesso additata quale esempio più palmare dei bassifondi della lirica. Non l’avevo mai esaminata con obiettività, confesso, infastidito da versi tra i più scellerati usciti dalla fantasia al riguardo inesauribile di Boito (quel “furibonda iena che frughi i cimiteri, furibonda Eumenide gelosa della morte”, che dopo due minuti diventa “fanciulla santa” cui “baciare il piè”…), e fuorviato da talune interpretazioni sciamannone ad altissimo gradiente di birignao. Sicché ricordo con grata commozione, una volta di più, l’oretta passata col mio compagno nella stupenda casa di Bruno Bartoletti a tutt’oggi, nessuna direzione è lontanamente paragonabile alla
sua - ad ascoltarlo sottolineare i moltissimi particolari di armonia e strumentazione che a suo dire ne facevano invece partitura oltremodo ricca, apice il grande concertato del terz’atto di cui al pianoforte fece un’analisi minuziosa che s’è stampata a fuoco nella mia memoria. Opera quindi, al pari di parecchie altre, a valutare la quale moltissimo dipende dall’esecuzione che se ne dà. E tuttavia, opera di assai raro ascolto. Un po’ per le remore che i direttori artistici tuttora provano nei confronti della nostra musicologia, da decenni tetragona nelle sue posizioni che ancora risentono dei mefitici motti crociani sulla poesia e non-poesia. Ma molto anche per le obiettive difficoltà che essa chiede di sormontare: economiche (folto strumentale, ampio coro, coro di ragazzi, un ballo troppo celebre per potersi permettere di tagliarlo, tante scene) nonché musicali, richiedendo almeno cinque voci destinate a sormontare difficoltà abbastanza improbe, massime per la protagonista. Ennesima lode, pertanto, da indirizzare alla nuova gestione del Municipale che, dopo il riuscito esempio della Wally nella stagione passata (grandissimo successo), a fianco della non tanto meno improba impresa d’aver portato a casa un ottimo Trittico, ha varato una Gioconda il cui alto livello dimostra come la spregiudicatezza delle scelte e la serietà nell’organizzarle siano di conserva a un’oculata politica dei prezzi - la carta vincente affinché i tanti teatri italiani non siano una zeppa ma un volano culturale.
Dicevo delle difficoltà connesse alla parte protagonista. Come per le ricette della nonna, che ad esempio per il pollo alla diavola principiava “è necessario un buon pollo”, dovrebbe essere lapalissiano come per poter pensare a mettere in cartellone Gioconda occorre disporre d’una Gioconda. Ma tanto lapalissiano non è, considerando che nella stragrande maggioranza dei casi, quando s’annunciano titoli tipo Otello o Norma e circa i nomi dei relativi protagonisti si legge “da definire”. Stavolta no. Stavolta la direttrice artistica (saggia seguace del tuttora sacrosanto motto di Verdi “le opere per i cantanti, non i cantanti per le opere”) ha messo su Gioconda perché sapeva, dopo i risultati ottenuti l’anno scorso con la Wally, di avere a disposizione una promettentissima Gioconda nella persona di Saioa Hernandez. Voce dal timbro non del tutto baciato dagli Dei, magari, ma di caratura alluvionale, che espande la sua amplissima estensione - da acuti al fulmicotone a gravi di potenza impressionante - lungo una linea solida, omogenea, timbratissima, innervata da fraseggio che ha già le stimmate di una forte personalità: il micidiale quart’atto, tutto sulle sue spalle, è stato una delle cose più melodrammaticamente emozionanti che mi sia capitato d’ascoltare negli ultimi anni. Accanto a lei, Francesco Meli trova in Enzo un ottimo personaggio. Timbro come e più di sempre fascinosissimo, grande attenzione alle sfumature e ai ripiegamenti lirici in luogo delle spampanate d’effetto (un “Cielo e mar” tutto a fior di labbro, morbido e timbrato nelle mezzevoci, sicuro nell’acuto: una meraviglia), un lavoro sulla parola che sa costruire un autentico personaggio. Sebastian Catana alla mia recita è stato annunciato indisposto: gran bella voce, comunque, ampia e sonora, tecnica solida, fraseggio rifinito e anche nel suo caso esente da birignao per applauso facile. Anna Maria Chiuri ha qualche difficoltà a smorzare, ma è interprete di rara sottigliezza nel plasmare la frase e darle accese connotazioni teatrali, forte d’un temperamento da grande attrice: il duetto con la Hernandez faceva riandare la memoria a certe roventi gare tra primadonne d’antan che si sono un po’ perse e non è male invece ricercare. Un po’ in difesa l’Alvise di Giacomo Prestia, che conserva comunque la bellezza d’un timbro fuori dal comune. Agostina Smimmero, la Cieca, ha la pagina forse più bella dell’opera, e l’ha cantata con un’ottima linea raccolta e benissimo fraseggiata. Callegari conosce molto bene quest’opera e tutte le relative sue insidie, così da dirigerla con sicurezza, sagaci scelte agogiche, robusto spessore teatrale. Lo spettacolo è molto risparmioso, ma con idee: Venezia è suggerita dalla superficie acquea che riveste il palcoscenico e conferisce la giusta atmosfera decadente e mortuaria a una narrazione che per essere confinata a tavole lignee su palafitte, con pochi mezzi ottiene un cospicuo effetto claustrofobico e inquietante: melodrammatico, per l’appunto.