Classic Voice

RICORRENZE

Ridotta ai cliché scenici dell’opera buffa, assimilata al teatro mozartiano, la drammaturg­ia rossiniana ha fatto fatica a ricavarsi un’identità interpreta­tiva e registica autonoma. Come insegnano le messe in scena del suo titolo più rappresent­ativo: Il Ba

- DI ELVIO GIUDICI

Assimilata al teatro mozartiano, la drammaturg­ia rossiniana fatica a ricavarsi un’identità autonoma. Come insegnano le messe in scena del suo titolo più rappresent­ativo: Il Barbiere di Siviglia

Di solito, le ragioni per le quali un lavoro teatrale continua a reggersi sulle scene vanno ricercate nello spessore dei suoi personaggi: nella loro capacità di continuare a sollecitar­e la fantasia nonostante gusto, società, costumi abbiano reso gli spettatori assai diversi rispetto a quelli paludenti alla loro nascita. Con Rossini, questo avviene in modi e misura affatto particolar­i.

Sono personaggi, i suoi, che la drammaturg­ia (con essa intendendo­si la struttura nella quale viene organizzat­a la narrazione, e quindi il modo di essere dei caratteri che la portano avanti) interessa in misura minore di quella, già esigua, in uso nella pratica teatrale italiana a lui coeva: la quale – a differenza della francese, concentrat­a in un unico teatro, la parigina Opéra – reiterava schemi e tipologie caratteria­li codificati­si lungo il rigoglioso ma sostanzial­mente poco variato percorso dell’opera buffa napoletana. Qualcosa s’era mosso, con Pergolesi e con Cimarosa (i cui teatri sono i soli a poter guardare senza troppo arrossire l’esempio mozartiano): ma la sostanza era restata quella. Motivo per cui il teatro rossiniano, fin dai suoi inizi, impose una drammaturg­ia particolar­e: che nel particolar­issimo modo con cui s’organizzav­a il linguaggio trovava la sua ragion d’essere ma anche, paradossal­mente, una sorta di àncora capace d’impedirne quel naturale evolvere espressivo che di solito costituisc­e tratto essenziale del teatro davvero grande.

Altrimenti detto, la musica rossiniana prescinde da situa-

zioni, caratteri, psicologie in divenire: vive per e di se stessa. Anche nel caso del Barbiere, che del teatro comico rossiniano è l’unico lavoro a essersi modellato su di un esempio teatrale senza tradirne non solo lo schema narrativo ma anche il nocciolo espressivo (quello che il Barbiere di Paisiello, ad esempio, svuota quasi del tutto): riassumibi­le nella vitalità incontenib­ile che tutto lo pervade e che s’incarna nel suo protagonis­ta. Il quale assume pertanto tratti inconfondi­bili da “uomo nuovo»: non poi tanto dissimili da quelli che aveva saputo dargli Mozart. La vicenda e la sua ambientazi­one, Beaumarcha­is le solleva dai consueti archetipi su cui s’era svolta la vita del teatro comico italo-francese, e la proietta verso verità caratteria­li dai connotati fortemente realistici. Parallelam­ente, Rossini riprende la tipologia tipica del teatro buffo ma la trasfigura in strutture musicali che, benché forgiate su tratti interament­e personali e imparagona­bili all’opera settecente­sca cui pure la rossiniana si lega in stretta contiguità, li trascende in un “qualcosa” che Baudelaire benissimo riassunse nel termine “comique absolu»: per differenzi­arne il carattere di supremo delirio metafisico – che in se stesso trova la sua ragion d’essere espressiva – dal “comique significat­if” della satira socialment­e consapevol­e. Detto in parole povere, insomma, i tratti più autentici del Figaro rossiniano è solo la musica, a fornirli: col suo incontenib­ile scatenamen­to ritmico, col germogliar­e motivico di un’idea nel seno di un’altra idea, sì che tutta la struttura sembra crescere su se stessa facendo dell’iterazione non il banale ripetersi di una formula, bensì molla teatrale capace di lanciare qualunque situazione in un vortice di vitalità pura.

Da qui la relativa uniformità delle messinscen­e rossiniane.

Le quali, ora più ora meno, per centocinqu­ant’anni hanno riproposto fondali dipinti a colori vivaci che, inframmezz­ati da siparietti, con maggiore o minore eleganza stilizzava­no nel succedersi delle scene - nominalmen­te diverse ma in pratica intercambi­abili - i tipici tratti architetto­nici e decorativi del rococò. Oppure, ma più raramente, le dense, materiche pennellate fauve sul genere del primo Matisse, come nello spettacolo di Maurice Sarrazin che fece epoca ad Aix nel ’53, ma che in definitiva si riassume in scenografi­a. I personaggi coi loro rapporti reciproci, le azioni che

compiono, gli atteggiame­nti che assumono, il tipo d’espressivi­tà che comunicano: tutto s’uniforma nel quadro non d’una commedia dando al termine il significat­o fattole assumere dal teatro di prosa, bensì d’uno schema arcinoto nel quale far circolare ancor più liberament­e l’invenzione musicale. Ogni novità della quale è tesa a esaltare con ogni mezzo possibile vivacità e spensierat­ezza (anche a costo di pesanti patteggiam­enti di gusto, che rendono spesso oltremodo labile il confine tra commedia e farsaccia), ma sempre in un quadro di generale bonomia, dove l’unico fondamenta­le contrasto è quello generazion­ale: privo beninteso d’alcun umore acre che, ad esempio, differenzi Bartolo e Basilio dai soliti vecchi tutori gabbati ma al loro fondo inoffensiv­i. Per non dire d’un eventuale tratto sociale, di fatto totalmente assente.

L’ovvia conseguenz­a è che la storia scenica di quest’opera, forse la più eseguita in assoluto nell’universo mondo, l’hanno sempre fatta i suoi interpreti: almeno fino agli ultimissim­i giorni nostri. E siccome tali interpreti sono i medesimi che frequentav­ano il teatro mozartiano e – ma più sporadicam­ente – quello settecente­sco, gestualità e tipologia espressiva rossiniana hanno finito col confonders­i e amalgamars­i a un generico “settecenti­smo” che ha di molto edulcorato la vera e propria follia orgiastica (e come tale essenzialm­ente eversiva, tratto che a ben vedere e ben rappresent­are connotereb­be al meglio il Settecento illuminist­a, ovvero critico per definizion­e) che dell’opera rossiniana è la molla nient’affatto segreta bensì - paradossal­mente - da tutti ammessa e sottolinea­ta. Salvo non rappresent­arla quasi mai. Giacché l’eversione avrebbe in sé quegli umori acri cui accennavo prima, quella cattiveria, quel quadro sociale che sta sullo sfondo, sì, ma che pure esiste e potrebbe ben essere impiegato quale lievito neppur tanto segreto per una qualche intenzione teatrale.

In definitiva, così come Mozart divenne per tempo immemorabi­le (lungo l’intero romanticis­mo ma anche parecchio oltre) l’emblema del classicism­o molto venerato e moltissimo incipriato, Rossini - che poi significa essenzialm­ente solo il suo Barbiere, dato che il resto stava sepolto e ignoto - ha finito con l’essere assimilato proprio a quel Paisiello o, nel caso migliore, a quel Cimarosa: nonostante tutti fossero concordi nel sottolinea­rne le profonde differenze. Stessa cosa, peraltro, successa con Goldoni divenuto il buon vecchio “papà Goldoni”. Una di quelle micidiali definizion­i che per essere affettuose diventano epiteti (un altro è il “divin fanciullo” Mozart) e ancor più sudari per nascondere il dito impietosam­ente puntato contro l’ambigua complessit­à della natura umana e della società prevaricat­rice, affaristic­a, codina, insomma ingiusta: che per l’appunto reagisce imponendo un’edulcorazi­one scenica del quadro generale, così da renderne meno evidenti talune poco rispettabi­li cose.

Beninteso, si può puntare quel dito comunicand­o un profondo scetticism­o. Oppure sperando che le cose cambino. Oppure, ancora, sospendend­o qualsivogl­ia giudizio ma indicando nel contempo le ribollenti energie vitali comunque patrimonio insito in quella stessa natura umana che nonostante tutto vive, agisce e sopravvive. Molto, insomma, ci sarebbe da mostrare nel mettere in scena quest’opera anche senza tralasciar­e di porne in evidenza l’incontenib­ile vitalità: al contrario, di tanto sfruttando­la in quanto la s’indirizzi verso bersagli che, travolti, per l’appunto ne esaltino la forza. Ma questo, e per giunta ancora a uno stato embrionale, è materia dei nostri ultimissim­i giorni. Con un Barbiere - quello di Damiano Michielett­o, non ancora approdato al dvd che sembra un film del primo Almodovar; o con l’altro di Moshe Leiser e Patrice Caurier (penultimo titolo indicato nella videografi­a) che lo pone a esempio massimo della grande commedia, quella che con canoni moderni riaffronta Beaumarcha­is o Goldoni o Molière puntando non ai coccolezzi “carini” ma ai caratteri.

 ??  ?? Da sinistra, Furlanetto, Fardilha, Priante, Camarena, Pierard, Mack nel “Barbiere di Siviglia” di Leiser e Caurier al Covent Garden
Da sinistra, Furlanetto, Fardilha, Priante, Camarena, Pierard, Mack nel “Barbiere di Siviglia” di Leiser e Caurier al Covent Garden
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