STILE LIBERO
Come i cubisti spezzando la figura la riconquistavano, così Demetrio Stratos faceva a pezzi la parola. Trovando le origini del suono in sperimentali diplofonie, triplofonie, risonanze di testa, colpi di glottide, sonorità fischianti e gutturali
Come i cubisti spezzando la figura la riconquistavano, così Demetrio Stratos faceva a pezzi la parola. Trovando le origini del suono in sperimentali diplofonie, triplofonie, risonanze di testa, colpi di glottide, sonorità fischianti e gutturali
Dicembre 1978. Esce Cantare la voce di Demetrio Stratos, e a rigirarsi il disco in mano si prova un nonsoché: in copertina, un disegno a matita di Demetrio, occhi al cielo, gli apre una bocca dentro la gola. Il senso c’era, chiaro. Nell’album Cramps Nova Musicha n.19, Demetrio raccoglieva i fili delle sue investigazioni: diplofonie, triplofonie, risonanze di testa, colpi di glottide, sonorità fischianti e gutturali che il mantice dei suoi polmoni convogliava negli anfratti della cassa armonica ch’era il suo corpo. Ma quell’album fu l’ultimo, registrato in studio, e nessuno immaginava che lo fosse. Nella “ferita” della copertina si nascondeva qualcosa di fatale: sei mesi dopo, il 13 giugno 1979, un’anemia aplastica stroncava Demetrio in un ospedale di New York, a trentaquattro anni. E il nonsoché diventava brivido.
Cantare la voce è il punto più alto delle ricerche dentro i suoni del corpo che Demetrio Stratos stava conducendo da anni. Doveva essere un riassunto e un inizio. Fu la fine. Difficile dire a quali segni sarebbe potuto arrivare; oltre i confini di Cantare la voce è un’impresa immaginare l’ascolto. Un avvertimento che Demetrio Stratos tendesse alla coincidenza tra vertice e limite come al Fato, si legge nelle due righe citate sull’album postumo Recitarcantando (1980, registrato dal vivo a Cremona il 21 settembre 1978), in duo con il violino di Lucio Fabbri. “L’ultimo canto del Thanatos”, scriveva Demetrio,“libera il soggetto dall’incomprensione della cosmologia del suono e il suo avvenire”. Sotto, un conturbante saggio di Gianni Emilio Simonetti fru-
gava con pensiero affilato nel mistero della voce come nodo fra vita e morte: “… la voce sa di essere una esagerazione, una turgescenza della materia corporale. Umore che bagna, come tutti gli umori, che viene dal basso, pasto nudo, armatura del mito della nascita. È prendendo per i piedi l‘omelette lacaniana e sculacciandola che si canta venendo alla luce, si sputano le acque della madre, si aprono gli occhi alle ombre del mondo. Ed è il ritorno di questo mito che il lavoro di Demetrio Stratos ha trapassato, vivendolo fino al calice della morte”.
Cantare la voce ha un album che l’annuncia, due anni prima, Metrodora, dove c’è già tutto e solo Stratos. Nei quattro Segmenti, nei due Mirologhi e in Metrodora (sette minuti e cinquantacinque di diafonie, di voce schizzata in due) i giochi sono fatti: Stratos è un autore contemporaneo che ha tagliato il cordone ombelicale con una parte del suo passato. Lo stacco con la vita precedente è tale che, in neretto, chiudendo le note ai suoi pezzi (?), si sente in dovere di avvisare che: “I materiali qui registrati vanno intesi come proposte di liberare con maggior naturalezza possibile l’uso della voce. Per questo non sono presi in considerazione trucchi tecnologici: per modificare il timbro della voce sono stati adoperati soltanto una corda, una cartina Rizla per sigarette e un bicchiere d’acqua”.
Efstrátios Dimitríu, nato ad Alessandria d’Egitto da genitori greci nel 1945, italiano dal 1962, iscritto al Politecnico di Milano (Architettura), musicista a tempo pieno, anche pianista accompagnatore per vivere, non è però separabile da un passato rock che non aveva motivo di rinnegare, anche perché è stato amato troppo, quel passato, e ha significato troppo nel cambiare le carte della musica d’oggi. Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi, fregio perverso che ornava l’ingresso ai lager nazisti, è l’album che inaugura, nel 1973, il mito degli Area. In Luglio, Agosto, Settembre (nero), primo pezzo del disco, una donna araba leva un’invocazione alla libertà della Palestina. Una voce maschile profonda, che trabocca vibrato, intona una monodia antisacra: “Giocare col mondo facendolo a pezzi, bambini che il sole ha ridotto già vecchi”. Poi, liberata, la macchina rock-jazz prende a pulsare e a correre per le strade polverose del Mediterraneo. Irresistibile. Uno degli incipit più orgogliosi che il rock d’avanguardia abbia scritto. Ma era solo rock? Gli Area diventano subito il suono e la voce del Movimento, e il gancio cui è appesa un’etichetta discografica, la Cramps, il cui ruolo musicale, non solo ideologico, non è da minimizzare.
Un passo indietro ai secondi Sessanta: con I Ribelli, Demetrio Stratos cantava un hit alla Bellocchio, “Pugni chiusi”, niente male, anzi, e la sua voce stava già stretta nella forma canzone. Era destino che, incontrato Cage e reinventati per voce i suoi Mesostics (1971), Demetrio dalla canzone uscisse. Lo fece sbattendo la porta col concerto-scandalo della Statale (Live Event ’76), con un gruppo chiamato ancora Area ma visitato dalle percussioni di Paul Lytton e dal sax di Steve Lacy, usciti Capiozzo e Tavolazzi; un falso concerto che negava alla platea del Movimento quel che i compagni si aspettavano, per servir loro un “evento” (fischiatissimo) sortito da foglietti sparsi come lanci cageani di un I-Ching.
Ora è ben chiaro che cosa abbia significato Demetrio Stratos, il suo recuperare in giro per il mondo, dal Tibet all’Africa (ma anche nelle fioriture del castrato Farinelli), ogni artificio che restituisse alla voce il suo stato di strumento non cantante. L’arte figurativa di inizio secolo, ricordava ancora Simonetti, scomponeva la figura (Braque, Kandinskij, Picasso), forse solo per riconquistarla più pura e innocente (Klee, Mirò). Demetrio Stratos faceva a pezzi la parola, tornando alle origini del suono.
In un video che pure s’intitola Cantare la voce, Majid El Houssi, scrittore mediorientale come Demetrio, tocca una corda speciale: “Noi abbiamo una cultura orale. Veniamo al mondo con la voce, con il grido. E sentiamo altre voci, altre grida. Ascoltiamo storie, fiabe, racconti. Poi la scuola confina, crea una griglia. Viene il tempo della scrittura, il depositato, e il mondo della memoria muore nella calligrafia”. Demetrio Stratos, greco di Alessandria d’Egitto, sapeva di avere una missione: farsi anghelos, annunciatore che dal grembo della civiltà venisse nella musica occidentale a riportare l’infanzia del canto.