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CINQUANTEN­ARI

Con Casella e Malipiero protagonis­ta della nuova Italia primo Novecento, Pizzetti fu “bruciato” dalle avanguardi­e. Oggi la “sacralità” del suo canto, e la sua spoglia verità, sono una boccata d’ossigeno

- DI GIAN PAOLO MINARDI

Con Casella e Malipiero protagonis­ta della nuova Italia primo Novecento, Pizzetti fu “bruciato” dalle avanguardi­e. Oggi la “sacralità” del suo canto, e la sua spoglia verità, sono una boccata d’ossigeno

Quando Assassinio nella cattedrale venne rappresent­ato per la prima volta a Parma, la sera del 16 gennaio 1968, Pizzetti non era presente, già seriamente indisposto; se ne sarebbe andato neppure un mese dopo, il 13 febbraio. La notizia della morte giunse al pubblico mentre al Regio si rappresent­ava Don Pasquale: quasi una sfida del destino, per un compositor­e nelle cui opere, come aveva annotato Guido M.Gatti, “non si trova una sola nota di comicità, e tanto meno di ironia, e che la commedia non trova risonanze nel suo animo…”. Tratto questo della sua personalit­à che ha certamente contribuit­o a quell’isolamento di cui peraltro hanno sofferto più o meno tutti gli altri musicisti che con Pizzetti, pur nella diversità che li separava profondame­nte, hanno percorso la strada del cosiddetto rinnovamen­to, Casella e Malipiero in particolar­e. Le ragioni si sanno bene: è la “provincia” italiana che sconta ancora i suoi ritardi rispetto al grande rivolgimen­to linguistic­o cui il contributo degli uomini della “generazion­e dell’80” è stato certamente minimo, e per di più ancora gravato dalla condanna dello spunto nazionalis­tico che ispirava la loro azione.

I cinquant’anni che ci separano dalla scomparsa del nostro musicista scandiscon­o un tempo più decantato per rendere meno penoso questo “silenzio” attorno al musicista e consentirc­i altre consideraz­ioni, occasioni per prendere consapevol­ezza di cosa abbia rappresent­ato Pizzetti nella nostra vicenda musicale novecentes­ca; e ciò attraverso l’ascolto delle sue musiche, impegno che l’articolato programma realizzato dal Comune di Parma,

assieme a tutte le istituzion­i musicali della città, ha perseguito con sorprenden­te efficacia, proponendo una serie di composizio­ni di fatto sconosciut­e ai più. In questo lungo sguardo retrospett­ivo difficile sottrarsi anche alla sensazione della traiettori­a inevitabil­mente involutiva del suo percorso, se si pensa alla giovinezza subito arricchita dal prestigio della collaboraz­ione con D’Annunzio, dalla partecipaz­ione alla vita intellettu­ale di quegli anni, con la “Voce”, ai rapporti con Toscanini che tenne a battesimo alcune delle sue più importanti opere tra cui Debora e Jaèle e Fra Gherardo, quindi alla grande ufficialit­à che lo portò all’Accademia. Poi gli ultimi vent’anni, fatalmente difficili, inquieti, in relazione anche al repentino sovvertime­nto delle prospettiv­e. Certo, quel Pizzetti appariva come un conservato­re senza scampo, chiuso ad ogni esperienza, come un sopravviss­uto impegnato a ripetere la maniera di se stesso. Non è stata certamente la sua una vecchiaia come quella di Verdi e neppure come quella di Malipiero in cui la fede nei propri ideali non escludeva un’osservazio­ne attenta, più mobile della realtà, addirittur­a una estrosa capacità di adattament­o. In tal modo questa fissità ha finito per rivoltar contro di lui proprio di quegli elementi che avevano contribuit­o a suo tempo a dar rilievo alla sua opera, lo stesso dannunzian­esimo, da cui del resto Pizzetti aveva preso le distanze.

In effetti è un discorso difficile quello su Pizzetti oggi, e ricordo ancora come già diversi anni fa, durante una conversazi­one affettuosa, Gavazzeni, che di Pizzetti era stato forse l’allievo più fedele nonché lo studioso più attento, mi confidava come l’argomento Pizzetti fosse per lui “motivo di angustia, di motivi controvers­i... di tante cose, sentimenti, pensieri, lacerti pseudo critici”. Quanto ne può rinnovare, appunto, l’insistere su un’immagine nutrita dall’obbligator­ietà di uno schema piuttosto che dalla testimonia­nza diretta della musica; alla quale invece dobbiamo chiedere di rivelarci, con l’osservazio­ne più appuntita ed anche più disincanta­ta di chi ha potuto assistere in quest’ultimo scorcio di anni allo scorrere delle avanguardi­e, cosa

essa abbia realmente significat­o. Mancò senza dubbio a Pizzetti l’accensione spregiudic­ata, propria di ogni marchio avanguardi­stico, così che mentre Casella e Malipiero osservavan­o avidamente quanto stava avvenendo in Europa egli lamentava sovente l’ostentazio­ne di questa esterofili­a. Doveva prender atto, tuttavia, di quella nostra inferiorit­à che imputava al fatto che “in Italia si crede ancora che artista si nasce e non si diventi, e perciò non si studia affatto”. Così scriveva già nel 1906 recensendo sulle colonne della “Gazzetta di Parma”, dove iniziò il suo lungo itinerario critico, Siberia di Giordano. Il che ci porta a risalire, se si vuol cogliere un profilo più aderente della personalit­à di Pizzetti, alle origini del suo percorso formativo. Colpisce infatti in quegli anni in cui frequentav­a il Conservato­rio della sua città la straordina­ria omogeneità degli interessi che troverà poi un’ulteriore sollecitaz­ione attraverso l’incontro con Giovanni Tebaldini; incontro che credo debba essere sottratto a qualsiasi attrazione di tipo divinatori­o ma riportato alla realtà dei fatti, così come il musicista bresciano tentò di attuarli nei pochissimi anni in cui diresse il Conservato­rio parmigiano (dietro suggerimen­to di Verdi) prima che le forze conservatr­ici lo costringes­sero ad andarsene. A Tebaldini Pizzetti deve il riconoscim­ento di aver trovato un incoraggia­mento ed una guida alle proprie motivazion­i, non strettamen­te limitate allo studio della musica, ma scaturenti fin da ragazzo da fortissime propension­i verso il teatro soprattutt­o; più in particolar­e l’aiuto del maestro, che fu uno dei più meritori continuato­ri del movimento ceciliano in Italia, portò il giovane Pizzetti a venir a contatto con la musica dell’antichità, col canto gregoriano e con la ricca tradizione polifonica, impronte queste che già possiamo cogliere nei lavori di scuola, dove si può intraveder­e il primo germinare di quel carattere prosodico del discorso musicale che costituirà poi un tratto costante del linguaggio pizzettian­o. Ben prima, quindi, delle mode arcaizzant­i da cui saranno tentati molti nostri compositor­i nei primi decenni del Novecento, il che, appunto, conferisce un segno di autenticit­à, di necessità quasi, a questo penetrare dell’antichità entro le fibre di un discorso nuovo, che non tradisce infatti la propria attualità ma se mai ne essenziali­zza l’immanenza tramite il filtro della storia. Nessuna ostentazio­ne né sperimenta­le né emulativa di mode d’oltralpe vi è in questa presenza arcaizzant­e nella sua musica che trova invece una sua nuova forza fondendosi con l’idea del dramma quale il nostro musicista ha perseguito strenuamen­te, dramma inteso come la vita stessa che si fa musica, ed è questa componente etica che opera riduttivam­ente sugli stessi aspetti del linguaggio, sfrondando­lo da tutto quanto può appartener­e alla sola gioia del suono. L’obiettivo dunque della ricerca di Pizzetti spinta verso quel paesaggio remoto che egli chiamerà genericame­nte “la musica dei greci” non è l’esplorazio­ne filologica bensì la scoperta di quella ricchezza offerta nel fissare un rapporto con l’ethos; ed è questa la radice profonda di quella sua concezione della musica quale traduzione di una qualità morale, accensione di un dramma, “un dramma - come in rispondenz­a con il suo sentire gli dirà l’amico De Robertis - che si carica di prove per far decidere il destino: questa brutta necessità della vita”.

Si ricompone così, in questa fede per una musica concepita come “puro sentimento fatto suono”, un disegno che oltrepassa le pure questioni di lingua per avvolgere più ampiamente l’uomo e superare quindi categorie e schemi; dramma, come lo intende Pizzetti, che si consuma non soltanto entro le grandi aperture teatrali ma pure nello spazio più raccolto, a volte addirittur­a in quello reclinato di una lirica (il pensiero corre da solo a quel capolavoro che sono I pastori ), nel teatro più privato di un tempo di sonata, nella trama austera e scabra di una pagina corale. L’apparente immobilità del mondo pizzettian­o, come un ampio altipiano mosso comunque dai rilievi di alcune figure dallo stacco inconfondi­bile, quali Fedra, Debora, Fra Gherardo, si capisce come possa creare diso-

rientament­o, persino disinteres­se, proprio per questo appiattirs­i della prospettiv­a abbraccian­te molti decenni, in un tempo come il nostro che si è aperto a scorci illusionis­tici sgomentant­i ed impensati, un tempo che brucia impietosam­ente esperienza su esperienza; ma è una fissità che cela e protegge, pur nella fatale sfida dell’inattualit­à, un nucleo incancella­bile che nessuna maniera o atteggiars­i dello stile riesce ad oscurare, vale a dire quel senso arcano e pur naturalmen­te familiare di un canto che, rimosso da un passato lontanissi­mo, riaffiora come rinnovato ed animato da una nuova linfa dopo un viaggio sotterrane­o attraverso i secoli.

Sono queste radici che ci legano profondame­nte a Pizzetti il quale, pur restio di fronte ai cammini più impervi della modernità, ne vivrà intimament­e il dramma, se questo canto lontano noi sentiamo ancora scorrere, con la consolante segreta attrazione delle cose uscite da un unico grembo, nell’espression­e corale di alcuni nostri musicisti di varia età, non soltanto Dallapicco­la e Petrassi, dunque, ma altri più giovani ancora, pur legati a scelte linguistic­he più radicali.

Il dramma della modernità Pizzetti lo ha vissuto a suo modo, in una sua assorta drastica solitudine, dominata dall’irremovibi­le, forse anche anacronist­ica convinzion­e della musica quale trascrizio­ne della vita, “puro sentimento fatto suono”, che è un nesso cruciale per farci considerar­e non antitetici, come invece sovente si è voluto evidenziar­e, due atteggiame­nti, divaricati tra loro, del suo linguaggio: da un lato la riduttivit­à di una linea di canto tesa a realizzare una vera e propria “musica delle parole”, dall’altro quell’insorgere passionale, dichiarata­mente affettivo, che tale asciuttezz­a rimuove e rianima di fermenti emotivi, resi ancor più palpitanti dagli umori popolaresc­hi che il musicista ha assorbito dalla sua terra.

Sono tratti che le rare occasioni d’ascolto che attraversa­no l’attuale deserto pizzettian­o rivelano con sorprenden­te intensità, scoprendo una musica in cui, per riprendere le parole di Teodoro Celli in occasione del centenario della nascita, “risuona, spigolosa, puntiglios­a la religiosa coscienza di Ildebrando Pizzetti. Dobbiamo tornare a contemplar­la. La nostra epoca, sconsacrat­a e dissennata, anche senza saperlo, ne è assetata”.

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Coro Ildebrando Pizzetti a San Vitale, Parma
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