IL DIRETTORE
Il prossimo anno compirà novant’anni. Ma col gesto sprigiona ancora la carica di radicale modernizzazione su cui ha costruito il suo percorso di musicista. Christoph von Dohnányi è nella rosa dei venerati maestri ospiti (tardivi) della Scala. Dirigerà l’E
I prossimi sono 90. Ma col gesto sprigiona ancora la radicale modernizzazione su cui ha costruito il percorso Christoph von Dohnányi è nella rosa dei venerati maestri ospiti (tardivi) della Scala. Dirigerà l’Elektra
Fra i direttori d’orchestra che oggi compongono l’esiguo circolo dei “grandi vecchi” (compirà i novanta il prossimo anno), Christoph von Dohnányi è forse il più restio ai riflettori della notorietà, per via di un tratto di aristocratica riservatezza. Nipote del pianista e didatta Erno Dohnányi e figlio di un giurista antinazista ucciso in un lager, Christoph von Dohnányi ha sviluppato un’importante carriera partendo dai teatri tedeschi, a Salisburgo e alla testa della Wdr di Colonia. Alfiere della creatività contemporanea e - all’opera - del rinnovamento registico, il direttore tedesco si concentra sul grande repertorio romantico, sul Novecento storico ma anche in ambiti contemporanei. Bacchetta assai sensibile, Dohnányi è anche noto come un perfezionista cortese ma inesausto, specie nelle minuziose prove dei concerti, come sanno anche i professori d’orchestra della Scala, dove è stato presente l’anno scorso e dove ora torna a dirigere: questo mese un concerto, il prossimo autunno la ripresa della straussiana Elektra “di” Chéreau.
Qual è stato il suo primo contatto con l’Italia?
“Molto tempo fa, all’Accademia di Santa Cecilia. Poi ho diretto nel 1966 al Teatro la Fenice di Venezia con la Wdr Orchester e un concerto alla Scala in commemorazione di Mitropoulos, sempre con la Wdr. Non ho però quasi mai diretto opera nel vostro paese, eccezion fatta per Moses und Aron alla Scala, nel 1977, lo spettacolo di Götz Friederich, esperienza di cui ho un magnifico ricordo”.
Tante collaborazioni con registi e tante proposte nuove nel XX secolo. È ancora attratto da quel mondo?
“Ho collaborato con molti registi importanti, anche perché nel dopoguerra c’era una costante ricerca di strade nuove, io stesso mi sono im-
pegnato a coinvolgere artisti all’epoca estranei all’ambiente operistico, come Schlöndorff o Grüber. Quando ero Intendant
dell’Opera di Francoforte, lavorando in team con Gerard Mortier e con Peter Katona, che ora è al Covent Garden, abbiamo realizzato stagioni molto significative in questo senso, con messe in scena contemporanee, in anticipo rispetto a quanto proposto altrove anni dopo. D’altro canto è noto come invece io abbia abbandonato di recente una produzione di Salome
a Berlino, dove sostituivo Mehta, perché mi trovavo in disaccordo con il regista. Ricordo messe in scena molto ardite di Salome, come quella di Luc Bondy, diretta a Salisburgo e Londra; però stavolta con rammarico non ho potuto continuare, anzi ho ritenuto necessario tracciare un confine di fronte a una regia pensata con approssimativa indipendenza rispetto a musica e libretto, cambiando i testi e non rispettando le essenziali necessità acustiche del teatro musicale”.
Spesso oggi si afferma che le grandi orchestre stanno diventando simili, senza una personalità distinta. Che ne pensa?
“Mi chiedo piuttosto se non ci siano troppi direttori d‘orchestra senza personalità, che finiscono per somigliarsi molto l’uno con l’altro. Sicuramente è un problema della nostra contemporaneità, si ascoltano troppe registrazioni e più di un direttore non legge davvero a fondo le partiture. Nel ripetere un brano si deve avere la pazienza di ricominciare da capo: quando torno ad affrontare una composizione dopo un certo tempo inizio tutto da principio, cercando anche la nuova letteratura sull’argomento. Naturalmente è un processo che prende molto tempo!”.
Lei ha un rapporto stretto anche con le orchestre americane. Quali sono le loro caratteristiche?
“L’esperienza americana è stata formativa per me: sono stato per vent’anni a Cleveland, orchestra che ha esercitato una profonda influenza sul mio sviluppo artistico. Con loro non era quasi necessario parlare di questioni tecniche alle prove, l’orchestra era già in ordine, praticamente perfetta. Quindi era possibile indagare a fondo le partiture, adoperando un approccio di tipo cameristico, insomma facendo musica insieme. Anche gli anni con Philharmonia, dall’altra parte dell’oceano, sono stati importanti. Sono casi in cui anche un direttore, se è intelligente e aperto, può imparare da un’orchestra e non solo viceversa. Anche nel mio incontro con l’orchestra della Scala di Milano mi sono posto nella condizione di capire cosa l’orchestra avesse da offrirmi e come adattarmi alle loro caratteristiche. Attitudine necessaria, esattamente quanto lo è cercare di convincere l’orchestra a seguire il tuo punto di vista. È sempre un’operazione di dare e avere, mi creda”
Come è cambiato il mondo direttoriale e del pubblico da quando ha iniziato?
“In Germania, da ragazzino, mio padre ci riuniva per ascoltare in casa la musica di Mahler, Das Lied von der Erde, che all’epoca era proibito. Non conoscevamo nulla di quella musica e praticamente non c’era musica contemporanea. Per questo nella Germania del dopoguerra c’è stata quella fioritura, pensiamo alle rassegne di Musica Viva create a Monaco da Karl Amadeus Hartmann, che ha ripreso a proporre la nuova musica dopo dodici anni di terribile silenzio, con compositori e direttori come Henze, Scherchen, Boulez. Avevo quindici anni quando è finita la guerra e ho dovuto recuperare i corsi scolastici sospesi; mi sono iscritto a giurisprudenza, come mio padre, volevo partecipare alla ricostruzione di una società in cui intere generazioni erano state spazzate via. La presenza della musica si faceva però sempre più forte, finché ha prevalso. Ho frequentato l’accademia di Monaco e con il denaro del premio Richard Strauss sono andato a trovare mio nonno, che insegnava in Florida. Sono poi approdato a Tanglewood e quello è stato un periodo di formazione magnifico, accanto a Copland, Bernstein, Lukas Foss. L’incontro con Solti, che mi volle come assistente, ha aperto la mia carriera”.
Un suo celebre collega nota che cinquant’anni fa il pubblico era composto da uomini dai capelli bianchi e oggi lo è altrettanto: prima o poi i giovani arrivano alla sala da concerto. Condivide questa prospettiva?
“Direi innanzitutto di aver conosciuto molti giovani vecchi e grigi e molti vecchi che sono giovani e freschi! Ovviamente oggi le istituzioni concertistiche si preoccupano della biglietteria, in Europa e ancor di più negli Stati Uniti, dove non ci sono fondi statali. Molti sono convinti che un buon sistema sia di creare programmi in cui si alternano musica contemporanea e partiture ‘tradizionali’. In verità penso che il pubblico dovrebbe poter scegliere la musica che vuole ascoltare, non credo sia utile proporre mescolanze senza criterio. Ha funzionato invece quando ho proposto Atmosphères di Ligeti, un pezzo fortemente dissonante, seguito senza soluzione di continuità dal Preludio dal Lohengrin di Wagner, per offrire al pubblico l’emozione dell’apparizione dell’elemento tonale. Ecco, forse serve una scelta di programmi più sofisticata”.
Continua a programmare nuovi debutti?
“Alla mia età mi interessa la seconda esecuzione di pezzi che ho diretto una volta soltanto. Mi sarebbe piaciuto dirigere di nuovo The Bassarids di Henze, che ho creato a Salisburgo nel 1966. Lo ripresentano quest’anno ma non sono io a dirigerlo. Vorrei riprendere anche alcune partiture di musica nuova, è fondamentale che abbiano anche una seconda esecuzione o proposte più frequenti. Fra i titoli che amo riproporre ci sono la Musica per archi, percussioni e celesta di Bartòk e pezzi importanti che non sono veramente entrati in repertorio come Notations di Boulez. Mi piacerebbe riprendere Der junge Lord, bellissima opera giovanile di Henze. Naturalmente bisogna sostenere anche i giovani, come il pianista e compositore Jean Frédéric Neuburger, di cui ho diretto Aube sia a Parigi, sia a Londra e a Boston, proprio per offrire più occasioni di ascoltare la sua musica”