RICORRENZE
Dagli esordi alla prima maturità, dall’affermazione del “realismo” alle sperimentazioni napoletane, dalle riscritture francesi all’addio precoce alle scene. Un profilo firmato Treccani da leggere tutto d’un fiato sul compositore d’opera scomparso 150 anni
Dagli esordi alla prima maturità, dall’affermazione del “realismo” alle sperimentazioni napoletane... Rossini: un profilo firmato Treccani da leggere tutto d’un fiato sul compositore d’opera scomparso 150 anni fa
Rossini ereditò dal periodo del cosiddetto interregno (L’opera tra Settecento e Ottocento, ndr) molte caratteristiche esteriori; l’esordio precoce (anzi, duequattro anni prima di un esordio medio dell’epoca); l’educazione in uno dei centri tradizionalmente più attivi nel campo (Bologna); la carriera teatrale durata poco meno di un ventennio. Nel caso specifico, proprio alla fine degli anni Venti, il gusto operistico cambiò in Italia e all’estero con l’affermarsi di una nuova generazione. Era successo lo stesso attorno al 1810. Si aggiunga che, per un gioco del destino, la musica sacra fu determinante nella carriera post-teatrale di Rossini, esattamente come per tanti suoi colleghi. Molte però furono le novità.
Rossini nell’interregno
Rossini portò nell’opera italiana una compiuta ed efficientissima standardizzazione delle forme drammatico-musicali dell’interregno, ripetute e portate a cifra inconfondibile. La rivoluzione rossiniana nel suo primo periodo fu principalmente stilistica. Massima riconoscibilità e massima efficienza. Il canovaccio strutturale dei singoli numeri rimase sempre il medesimo, e anche le forme musicali erano tutte già presenti. Lo stesso si potrebbe dire per altri stilemi che già esistevano: il crescendo, il falso canone, l’associazione di gesti musicali a una situazione drammatica estremamente tipizzata, il concertato in tempo lento a esprimere lo stupore degli astanti, la stretta vorticosa alla fine del numero. Ma Rossini ne fece, appunto, un sistema; quel che Julian Budden (1973) chiamò “codice rossiniano”.
Con Rossini però gli spunti melodici diventavano più “individuati”, più caratteristici, e ripetuti molte volte; le unità fraseologiche aumentavano di dimensioni ed erano replicate integralmente; inoltre veniva ulteriormente abbattuta la barriera tra stilemi di opera seria e di opera comica (anche questo a vantaggio di una stesura più rapida). Rossini saturò il mercato delle sue produzioni: in pochi anni popolò tutti i palcoscenici, come un organismo geneticamente modificato che impedisca di adoperare le vecchie sementi, inoculandosi in vari generi: raggiunse successi prima ineguagliati nella farsa veneziana (L’inganno felice, 8 gennaio 1812); nell’opera comica (La pietra del paragone, 26 settembre 1812, e L’italiana in Algeri, 22 maggio 1813); nell’oratorio (con Ciro in Babilonia, 14 marzo 1812, e soprattutto con Mosè in Egitto, 5 marzo 1818); nell’opera seria (Tancredi, 6 febbraio 1813); nell’opera semiseria (già con L’inganno felice e compiutamente con La gazza ladra, 31 maggio 1817); e financo nell’opera comica con parti in dialetto napoletano, di norma riservata ai compositori nativi (La gazzetta, 26 settembre 1816). I compositori rivali dovettero adattarsi a competere su questo terreno, dal punto di vista sia dell’originalità sia della pervasività e del numero delle produzioni. Tra il 1812 e il 1813 videro la luce dieci opere: quattro farse (oltre all’Inganno felice: La scala di seta, L’occasione fa il ladro, Il signor Bruschino) e, nell’ordine, Ciro in Babilonia, La pietra del paragone, Tancredi, L’italiana in Algeri, Aureliano in Palmira, ultima inaugurazione della Scala nel Regno d’Italia; più Demetrio e Polibio, comparsa a Roma nel 1812. Soltanto la guerra impedì a Rossini di scrivere un’opera anche per Genova, dove si era recato nel gennaio del 1814 prima di tornare a Milano per Il turco in Italia (agosto successivo). Decenni più tardi, ironizzava sull’amore per la bella vita che gli attribuivano i biografi: a parte intrattenere un’amante di nobile lignaggio a Milano, il tempo che aveva era, come si vede, quasi tutto subordinato alle scadenze lavorative. Rossini fu in definitiva un grande lavoratore, anche per la necessità di sostenere economicamente la sua adorata famiglia. Dopo gli exploit del 1813 poteva parere, stante il 1814 (compreso Aureliano in Palmira) contrassegnato da esiti molto modesti, e il 1815, quasi inoperoso, che la prima ondata rossiniana avesse subito un riflusso; ma il 1815, con la ritrovata stabilità politica, permise al “re degli impresari” Domenico Barbaja di scritturare Rossini a Napoli in quello che poteva essere un soggiorno a termine (con la scrittura di una o due opere) e si tramutò, invece, in una collaborazione destinata a durare sette anni.
Alcune opere del periodo di “conquista” ebbero vastissima circolazione. L’inganno felice riscriveva la vecchia storia di Genoveffa di Brabante: un marito crede di avere ucciso una moglie infedele e la rincontra senza dapprima riconoscerla (o non del tutto); comprende che sua moglie era innocente
e viene da lei perdonato. Le strutture e le campiture musico-drammatiche di questa farsa sono molto ampie, in specie il memorabile finale “notturno”, e gli stilemi rossiniani sono già tutti presenti. La pietra del paragone fu il titolo con cui il nome di Rossini si fece caro ai milanesi e giunse a un palcoscenico internazionale: la collaborazione con un librettista in declino come Luigi Romanelli (poeta di regime del Regno d’Italia) non impedì a Rossini di variare il linguaggio di ognuno dei numerosi personaggi a seconda della loro caratterizzazione. Così anche un comprimario come Pacuvio poté lasciare il segno con la sua “Ombretta sdegnosa”, e dall’altro capo della scala gerarchica la primadonna (Maria Marcolini) ebbe due pezzi di sicuro effetto, all’inizio e alla fine: una cavatina “amorosa” con l’eco del conte Asdrubale, sua anima gemella, a intervallarne il canto e un rondò (ossia l’aria finale) di sicuro impatto virtuosistico. Tancredi ridisegnò i confini dell’opera seria: agile di forme, di pochi numeri, molto meno dispersiva delle opere serie che si ascoltavano a Milano o a Napoli, concentrata sui tre protagonisti e soprattutto sul rapporto tra Tancredi e Amenaide, con molti pezzi cantabili e destinati a restare nel repertorio di professionisti e dilettanti di musica.
Per Tancredi Rossini scrisse anche un finale tragico che, però, ebbe poca o nessuna fortuna finché è stato riesumato in tempi moderni sull’onda della ricerca di un Rossini “progressivo”, come se il finale tragico o lieto di un’opera impedisse di percepirne lo stylus tragicus e come se il finale tragico non fosse stato assai diffuso alla fine del Settecento. Tutti i pezzi di Rossini qui hanno un taglio simile all’opera dell’interregno: solo, riscritti con un’efficacia e una concisione senza pari. Di dimensioni incomparabilmente maggiori - come permettevano i mezzi della Scala - e di successo incomparabilmente minore fu Aureliano in Palmira (26 dicembre 1813). Ma anche in quest’opera una farraginosa trama di vecchio conio, con ripetute battaglie e incredibili rovesciamenti di fronte, era cosparsa da alcune memorabili invenzioni in stile cantabile: così l’amore contrastato tra Zenobia e Arsace (l’ultimo grande castrato, Giovanni Battista Velluti) prendeva il proscenio a dispetto degli squilli guerreschi.
Tanto lunga e meditata fu la gestazione di Aureliano, quanto era stata frettolosa, forse addirittura inferiore a venti giorni, la nascita dell’Italiana in Algeri. L’opera ebbe subito grandissima fortuna nonostante titolo e incipit del pezzo più importante (il rondò di Isabella “Pensa alla patria”) fossero poco graditi in tempo di Restaurazione. Il finale centrale dell’Italiana, con le celebri imitazioni rumoristiche da parte dei cantanti (“cra cra, bum bum, tac tac”) fece furore: il topos dei personaggi smarriti dall’intrigo della trama e il chiasso che fanno cantando simultaneamente frasi incomprensibili - già di per sé un elemento metateatrale - venivano portati al limite estremo precipitando definitivamente l’opera comica nella vertigine dell’assurdo.
Molti compositori avevano provato, ma solo Rossini era riuscito a compiere questo passo. C’era riuscito a dire il vero anche nella farsa Il signor Bruschino, di una comicità che oggi si definirebbe demenziale, sicuramente provocatoria a partire dalla sinfonia in cui ai violini secondi è prescritto di suonare sui sostegni dei leggìi. Bruschino ebbe pessimo esito ed è stata apprezzata compiutamente solo in tempi moderni. Così anche Il turco in Italia, con la mise en abyme del poeta che scrive il dramma cui assiste e l’impagabile caratterizzazione della donna civetta e del “marito scimunito” che trova alla fine una sua dignità. Ma anche la “portatilità” (ossia le ridotte dimensioni e lo sparuto numero di cantan-
ti necessari) di Demetrio, la comicità scurrile dell’Equivoco stravagante o le profezie di Ciro e lo stesso Aureliano hanno, lentamente, trovato uno strapuntino nella rinascita rossiniana. Corona questa fase un’altra opera seria “cantabile”, la prima scritta per Napoli, Elisabetta regina d’Inghilterra. La storia di clemenza reale e di sovranità oltraggiata ben si attagliava al portamento della primadonna Isabella Colbran, che richiedeva nobili accenti e virtuosismo vocale estremo. La rivalità di due tenori come Manuel García (Norfolc) e Andrea Nozzari (Leicester) fu sfruttata appieno sul piano sia vocale sia scenico; con uno spazio persino per i teneri e furtivi accenti tra i coniugi in incognito (Matilde e Leicester). Rossini presentò al diffidente pubblico napoletano una summa condensata delle sue esperienze precedenti, impiegando in larga parte musica già scritta. L’esito fu trascinante; ma Rossini, preso contatto con la realtà di Napoli, avrebbe poi seguito ben altri sentieri.
Il periodo “realista”
Sebbene Rossini sia stato sempre considerato un compositore “apollineo”, dunque portatore di un’estetica di bello ideale, poco di questo c’è di vero: non solo per il suo finale capolavoro, Guillaume Tell, ma anche se consideriamo le opere comiche, serie e semiserie scritte tra il 1816 e il 1817 e, a ben vedere, anche il modesto esito veneziano di Sigismondo (1814). Rossini era passato, tra il 1813 e il 1817, dalla “perfezione dell’unione della melodia antica e dell’armonia moderna” di Tancredi alle sensazioni “più piccanti e forse più forti” (Stendhal 1824, 1° vol., p. 153) che rendevano Stendhal perplesso di fronte a Otello e alla Gazza ladra. La diffidenza di Stendhal riguardava forse l’emergere di un’istanza che diremmo, pur con molta cautela, realista. Realistici sono i dettagli della pazzia di Sigismondo, un re imbelle perseguitato dal fantasma della sua sposa (peraltro viva e vegeta: ennesima variante della storia dell’Inganno felice), che contagia l’opera tutta, in cui sovrabbonda una pennellata inquieta, oscillante, tremante, scura, realizzata con il timbro, con le melodie e con alcuni passaggi al limite tra recitativo, arioso e aria. A questo filone si può ricollegare l’opera semiseria Torvaldo e Dorliska (1815), con la sadica raffigurazione del duca Ordow e della sua rabbia quando si vede scoperto e sconfitto.
L’opera comica prevedeva da sempre elementi della vita reale, specie nei personaggi buffi (in genere controbilanciati da uno o due personaggi seri). E
“La Cenerentola”, allestita da Pier Luigi Pizzi alla Scala nel 1964 A sinistra, “La Gazza ladra” (regia di Salvatores) alla Scala nel 2017
il personaggio buffo faceva ridere per i suoi difetti. Quel che nel Barbiere e, soprattutto, nella Cenerentola colpisce è la capacità di Rossini (e dei suoi librettisti) di far comprendere che i difetti erano (e sono) presenti ovunque nella società dell’epoca. Entrambe le opere furono composte non a caso per Roma e, a differenza di Torvaldo, fecero ridere molto. Nel Barbiere (originariamente Almaviva, è forse la prima opera a non essere mai uscita dal repertorio, dove troneggia da duecento anni) la caratterizzazione pretesca di Basilio e quella di Almaviva travestito da maestro di musica, rispettivamente nell’aria della calunnia e nel “Pace e gioia” all’inizio del secondo atto, sono largamente debitrici a mezzi esclusivamente musicali. Si tratta di esempi di musica al quadrato: il crescendo nell’aria della calunnia che investe la totalità dell’aria; la “leziosità” del frammento musicale di Almaviva che si perpetua e che non ci si riesce a scrollare di dosso. Reale e grottesco non erano mai stati così vicini. La Cenerentola è un passo avanti nella mimesi del reale: innanzitutto perché, per esigenze teatrali (ed economiche), ogni accento favolistico fu rigorosamente espunto dalla trama. La mestizia di Cenerentola, la grettezza del nobile spiantato don Magnifico, l’ottusità delle figliastre, la vanità del cameriere Dandini principe per un giorno, e soprattutto la cattiveria e l’aggressività di un essere umano verso l’altro (patrigno contro Cenerentola, ma anche principe Ramiro contro lui e le figlie) sono fedele riflessione della buia Roma del 1817. Anche Otello (4 dicembre 1816) non sfuggì a questa tendenza. L’opera è divisa in due parti: un primo atto “tradizionale” con pezzi ampi ma tagliati convenzionalmente, culminante nella maledizione del padre a Desdemona; un secondo e terzo atto fortemente sperimentali. Rossini recuperò alcune abitudini dell’opera napoletana del decennio francese, terminando con un finale tragico un’opera in tre atti. Il terzo atto, breve, consiste di un solo numero. Ma in questo numero, dominato dalla voce tragica di Desdemona, trovano spazio il canto del gondoliere sul dantesco “Nessun maggior dolore”; la lugubre canzone del salice; la preghiera di Desdemona; l’entrata di Otello, lo svelto duetto finale (in due tempi), e la conclusione, appunto, tragica con la pugnalata a Desdemona e il suicidio di Otello. Una climax in tempo pararealistico, compatta dal punto di vista della tonalità e della “tinta” (per usare una parola verdiana). Di realistico c’è la musica intradiegetica (il canto del gondoliere e la canzone del salice) e, a chiudere il cerchio attorno a Desdemona, dopo l’irruzione di un colpo di vento che spezza alcuni vetri, il furioso temporale che accompagna l’uccisione, minuziosamente indicato in partitura con elementi di rumore “puro” ben diversi dai temporali stilizzati scritti da Rossini fino ad allora. Il sovrintendente agli spettacoli di Napoli, duca di Noja, indirizzò una commossa lettera a Rossini chiamandolo “filosofo dei cuori”. Il terzo atto, come scrisse Giacomo Meyerbeer a suo fratello dopo averlo visto rappresentato a Venezia, era “divino, e la cosa più impressionante è che tutte le bellezze sono di tipo ‘antirossiniano’”. In certa maniera
la pensava allo stesso modo Rossini nel riportare alla madre il trionfo di Otello: “io certamente mi sono superato in maniera che dubito qualche volta di essere l’autore di una cosa tanto classica”. “Filosofico” e “classico” relativi alla musica sono termini generici; entrambi denotano un’intenzionalità della scrittura operistica che va oltre il mero tran tran delle stagioni. Rossini intendeva per classico il senso “alto” della tragedia: aveva scoperto forse con Otello quanto l’opera – e la sua opera – potesse essere un’avventura intellettuale. L’anno successivo, poco dopo il battesimo della Cenerentola, Rossini tornò a Milano. Una descrizione “esteriore”dell’opera che andò in scena il 31 maggio è ben data da questa lettera ai genitori di cui riproduciamo integralmente lo stile telegrafico e cui accostiamo, di seguito, le parole di un recensore della prima: “Allegri allegri per Dio. La mia Gazza ladra alle stelle. Io non mi ricordo un fanatismo simile principia con una Sinfonia talmente divina che incontrò tutti questa era intersicata con due tamburi che dalle estremità del teatro si rispondevano come l’eco. Seguita un prim’atto pieno zeppo di musica da far tre quattro opere. [...] il second’at[t]o poi dalla prima nota fino all’ultima non è stato che un continuo entusiasmo ma se sapeste quante notti ho passate al tavolino per questa opera è però la più bella ch’io m’abbia scritta ci sono due gran Finali. Un Quintettone e un Terzetto e tre duetti Introduzioni 4° Cavatina 3 Arie ed altre cosette e la Sinfonia che come tutti dicono pare impossibile variare sempre e sempre cose nuove”. Altri scrissero. “Mi sembra che il sig. Rossini in certi punti del suo componimento, non sovvenendosi che la scena è in un villaggio, e che i cantanti son contadini, adombra la musica con un’epica solennità come se si trattasse di Cesare e di Trajano”.
Era difatti inusitata tanta magniloquenza per una storia così esile, perfino banale: una serva condannata a morte per il furto di una posata (originatasi in un mélodrame rappresentato a Parigi durante i Cento giorni). Che una fabula così potesse tollerare una struttura come quella descritta da Rossini nella lettera, fa comprendere come la posta in gioco della Gazza ladra sia ben altra: una raffigurazione degli innati crudeltà, ottusità ed egoismo degli uomini - e dunque nulla cui potesse bastare lo stile comico “mezzano”. A parte la protagonista, nessuno si salva. Non il Podestà (nominalmente un “buffo”) che abusa del suo potere per sedurre una ragazza di umili condizioni e, vistosi respinto, infierisce contro di lei; non il fidanzato Giannetto che a un certo punto non si fida più di colei che vuole sposare; non sua madre che già da prima ha avuto dubbi sulla mésalliance con una domestica e non vede l’ora di liberarsi della futura nuora; e nemmeno il padre disertore che la mette nei guai. A coronare il tutto, a mettere in scena la farsa del potere, un coro di giudici (“Tremate, o popoli”) la cui sonorità soffoca letteralmente testimoni e imputata. Che poi il villaggio alla fine riconosca l’innocenza della povera Ninetta è secondario: la macchina del potere e la connivenza dei sudditi stritolano il singolo, così come lo sopraffà la musica di Rossini. “Non manca che il cannone”, aggiungeva un contemporaneo, dopo l’ascolto.
Le opere napoletane
A Napoli Rossini ebbe la possibilità di sfruttare alcune condizioni ideali: la stima incondizionata dell’autorità, un buon rapporto con il pubblico, risorse praticamente illimitate dal punto di vista scenico e tecnico, una compagnia di cantanti invidiata in tutto il mondo. Questo gli permise, dopo il tentativo “conservativo” di Elisabetta, di sperimentare; d’altro canto, le opere napoletane ebbero circolazione limitata in quanto troppo legate all’ambiente per cui erano state concepite (si pensi solo alla quantità di voci maschili necessarie). Alla tragedia Otello successe Armida (1817), di cui l’elemento magico e coreografico occupa una gran parte. Lo spettacolo di palazzi incantati che sorgono e si inabissano, di furie e di ninfe e demoni si accoppiava allo spettacolo canoro fornito dalla protagonista, la cui capacità incantatoria si palesa in veste musicale (basti pensare alle vertiginose variazioni “D’amore al dolce impero”). Il duetto “Amor! (Possente nome!)” tra Armida e Rinaldo fu uno dei pezzi favoriti dell’epoca.
Ancora legato alle possibilità spettacolari del San Carlo fu Mosè in Egitto, rappresentato nella quaresima (è infatti un oratorio o dramma sacro) del 1818. L’elemento scenotecnico, assai presente - le tenebre di Faraone con il passaggio dell’angelo sterminatore -, tradì Rossini proprio in chiusura di sipario: il passaggio del Mar Rosso, mal eseguito, rovinò completamente l’effetto del finale. La ripresa nella quaresima successiva, con l’aggiunta della preghiera “Dal tuo stellato soglio”, altro pezzo destinato a non uscire mai dalla memoria degli ascoltatori, rese giustizia a Mosè. Anche in questo caso Rossini aveva allargato il suo orizzonte: l’oratorio era di genere “elevatissimo, e non so se questi mangia macheroni lo capiranno”. I “mangia maccheroni” lo capirono, e così lo capirono tutti gli spettatori dell’Ottocento. Mosè fu la prima opera senza una sinfonia “indipendente” (il
sipario si apriva sul tour de force della scena delle tenebre in cui sono immersi gli egizi): tutte le opere successive a Napoli ne seguirono l’esempio.
A un gigantismo differente, di strutture musicali più che di strutture sceniche, appartengono opere come Ricciardo e Zoraide (1818) e Zelmira (1822), note anche per l’oscurità delle situazioni drammatiche. Eppure queste due creature rossiniane furono molto fortunate; Zelmira fu per così dire concepita per l’esportazione in terra “tedesca”, a Vienna, dove fu rappresentata con grande esito, dunque con sfoggio di perizia armonica e strumentale. Le parti dei protagonisti (la primadonna e i due tenori) si dimostrarono però molto impervie e a tutt’oggi solo un ristretto novero di cantanti può affrontarle. Quasi ai due estremi di un’eventuale scala di longevità sono due opere del 1819: Ermione, che fu un fiasco solenne (prima ancora di terminare l’opera Rossini pensava che il soggetto fosse “troppo tragico”), sparita dalla circolazione fino a tempi moderni, e La donna del lago, che prese l’avvio da un successo tiepido fino a essere una delle opere più popolari. Anche qui Rossini aveva delle riserve: il soggetto era “un po’ romantico” (tratto com’era da Walter Scott). Era vero. Non era la prima volta che il teatro italiano si avventurava nella Scozia, metteva in scena dei bardi e mostrava panorami nordici; l’effetto però, combinato con alcuni elementi musicali “caratteristici” fu di tipo totalmente nuovo. In quest’opera tornava a Napoli un musico, ossia un contralto che cantava da eroe maschile, Rosmunda Pisaroni nelle vesti di Malcolm. La tavolozza musicale si arricchiva della banda sul palco: decine di strumenti a fiato e percussivi dialogavano con l’orchestra. L’orchestrazione rossiniana, già fragorosa, poteva contare su di una massa sonora e vocale senza precedenti; troppo, per le orecchie di molti pubblici (oltre che per le tasche degli impresari).
Opera particolarmente tormentata, ma ambiziosa come e forse più delle sue consorelle napoletane, fu Maometto II. Rappresentata il 3 dicembre 1820, nel mezzo dei rivolgimenti politici che portarono re Ferdinando a concedere e poi revocare la Costituzione, Maometto II (benché concepita prima dei moti costituzionali) esprimeva sentimenti “repubblicani” e tragici - il suicidio di Anna consente ai veneziani di vincere contro i turchi; persino più patriottico il suo matrimonio, poco prima della catastrofe, con l’uomo non amato. Maometto è una tappa estrema della ricerca rossiniana di unità musicali sempre più ampie e complesse. A questa ricerca si deve il famoso Terzettone (titolo originale) che comprende nello stesso numero una sequela di pezzi quasi autosufficienti, comprese una preghiera per la protagonista e una battaglia combattuta sullo sfondo, con relativo cambio scena. La complessità fu nociva alla circolazione dell’opera, sostituita fino a tempi recenti dalla sua rivisitazione francese (Le siège de Corinthe).
In mezzo al soggiorno napoletano non mancarono, come si è detto, quelle che furono da Giuseppe Radiciotti (19271929) dette licenze: Roma (oltre alle opere già menzionate, Adelaide di Borgogna, carnevale 1817, e l’opera semiseria
Matilde di Shabran, 1821), Milano (Bianca e Falliero, carnevale 1820), Venezia (Eduardo e Cristina, 1819) e Lisbona (la farsa Adina, frutto di una misteriosa commissione di un importante personaggio pubblico, scritta nel 1818 e rappresentata solo otto anni più tardi in assenza del compositore).
Gli anni di pellegrinaggio e le opere francesi
Nella primavera del 1822 Rossini si recò a Vienna con buona parte del cast dei teatri reali di Napoli a secondare l’impresa commerciale di Domenico Barbaja, che aveva rilevato l’impresa del Kärtnerthortheater e contava di invadere la capitale dell’impero di novità italiane e tedesche (Rossini, ma anche Carl Maria von Weber); il compositore di Pesaro oscurò totalmente i rivali. Tornato in Italia, fu per così dire responsabile della “colonna sonora” del Congresso di Verona voluto da Klemens von Metternich con due cantate (La santa alleanza e Il vero omaggio). Con più calma del solito poté prepararsi alla stagione del carnevale 1823 che l’avrebbe visto alla Fenice insieme alla Colbran: Maometto II (con finale lieto e altre modifiche) e un’opera tutta nuova, Semiramide. Fiasco per la prima, cauto e poi enorme successo per la seconda opera, che fu l’ultima scritta per un palcoscenico italiano. In Semiramide si ritrovavano molti tratti delle prime e delle ultime opere rossiniane: gigantismo di forme, ma in una rinnovata proporzione tra i singoli numeri; lo stile, più misurato, tornava “classico” (così com’era classico il soggetto volterriano che aveva già avuto fortuna nel decennio tragico della fine del Settecento). È impossibile, anche se indimostrabile, non pensare che Rossini sapesse che con Semiramide stava dando l’addio all’Italia musicale. Lo faceva dotandola di una summa di tutto ciò che era operistico, un manuale inarrivato di tecnica teatrale e musicale. Seguirono i viaggi per l’Europa. La parentesi londinese portò proficue lezioni e redditizi concerti privati (mentre la carriera di Isabella terminava) insieme all’abortito progetto per un’opera nuova, mai scritta o forse stesa in parte, faccenda che accelerò la rovina dell’impresario del King’s theatre Giovanni Benelli. A Parigi, dove in sostanza Rossini risiedette tra il 1824 e il 1836 con poche interruzioni, poté sorvegliare di persona l’esecuzione dei suoi lavori, proporre novità, caldeggiare il reclutamento dei cantanti (e attirarsi numerose inimicizie, prima tra tutte quella di Ferdinando Paer, suo predecessore alla direzione del Théâtre-italien). Le autorità francesi erano in trepida attesa di nuove opere, tuttavia; e Rossini fu ben felice di poter lasciare la direzione del teatro per ricominciare a scrivere a suo piacimento avendo a disposizione, sia al Théâtreitalien sia all’Opéra (Académie royale de musique), un cast stellare. Basti dire che nel Viaggio a Reims (1825) cantarono Ester Mombelli, Laure Cinti, Adelaide Schiassetti, Marco Bordogni, Domenico Donzelli, Nicolas Levasseur, Felice Pellegrini e nientemeno che Giuditta Pasta. Nelle opere in francese cantarono gli stessi Cinti e Levasseur, Adolphe Nourrit, Henri Dabadie, Henri Dérivis; per non dire dei mezzi scenici e del tempo accordato alle prove. Il viaggio a Reims, prima prova compositiva sul suolo francese, era una cantata scenica concepita nel quadro delle celebrazioni per l’incoronazione di Carlo
X a re di Francia. Poi, appena presa familiarità con lingua e usi del luogo, Rossini scrisse due adattamenti (in realtà radicalmente nuovi quanto a struttura e dal diverso significato rispetto al contesto) di opere napoletane. Il primo fu Le siège de Corinthe, da Maometto II, che acquistò un senso ancor più “politico” nel pieno della guerra d’indipendenza greca. Le convenzioni dell’opera francese, che prevedevano il balletto dentro l’opera, e una qual certa prudenza di Rossini, gli fecero ridisegnare i numeri, smembrando anche il Terzettone in una più consueta articolazione musicale, ma anche componendo dei pezzi che fecero furore – anche per la situazione contingente – come la Benedizione delle bandiere.
L’anno successivo andò in scena Moïse et Pharaon, da Mosè in Egitto, cui Rossini dovette aggiungere un atto nuovo (oltre ai ballabili e ad altro materiale). Infine due opere francesi pressoché nuove. Dapprima andò in scena Le comte Ory
(1828), estremo frutto di un compositore che sarebbe passato alla storia per il suo talento comico. Rossini reimpiegò parte della musica del Viaggio a Reims (che, essendo una cantata celebrativa, non aveva circolazione) per la storia – diremmo – piuttosto piccante di un seduttore che per possedere una nobildonna si traveste da eremita e poi da suora insieme ai suoi degni compari. La storiella fu il pretesto per una partitura finemente cesellata, che alterna spasso e ironia sottilissima, in cui ancora una volta il segno musicale si presta a molteplici interpretazioni. Rossini disegnò con Ory una sorta di Falstaff tenorile, astuto e senza scrupoli, il cui tentativo di seduzione culmina in un Terzetto (“A la faveur de cette nuit obscure”) in cui crede, nel buio della notte, di aver finalmente ottenuto i favori della protagonista (la contessa Adèle), mentre in realtà sta insidiando il suo principale rivale (il paggio Isolier, innamorato ricambiato della contessa: personaggio peraltro interpretato da una donna). E come in Falstaff, come in Così fan tutte, la morale è forse che l’uomo è nato per essere giocato, ma che dell’inganno, del gioco, non deve aver timore. Non è un caso che Mozart, Verdi e Rossini abbiano sublimato questo lato della condizione umana nelle loro opere comiche tarde.
Guillaume Tell fu rappresentato il 3 agosto 1829, dopo una lunga attesa di pubblico e mezzi di comunicazione. È difficile decidere in quanti modi il Tell abbia aperto una nuova epoca nel melodramma: se con l’integrazione delle passioni (amore, amore familiare, amore della propria terra) nell’ampia cornice della storia di un popolo, insegnamento prezioso per il grand opéra degli anni Trenta; oppure con la perfetta pittura dei fenomeni naturali - la foresta oscura, il lago in tempesta, il cielo che si rasserena, la montagna incontaminata -, che diventano proiezione della storia individuale e di una nazione oltre i limiti del palcoscenico; oppure con la novità delle soluzioni orchestrali; oppure ancora con l’invenzione - o meglio, il ritrovamento - di un canto solistico “affettuoso” che non rinuncia al virtuosismo vocale, romantico senza perdere il gusto per l’equilibrio; oppure grazie al connubio finalmente realizzato tra Italia e Francia. Guillaume Tell non si presta a un’interpretazione univoca. Si può veramente condensare in un’illustrazione romantica, con l’eroe patriota sospeso sul ciglio della montagna a guardare nel futuro? E poi, chi è l’eroe dell’opera? Guillaume? Arnold? Il popolo? La natura (Dio?) che porta inevitabilmente verso la libertà e la felicità? E come considerare il paradosso di un’opera sicuramente antiaristocratica, che pare anticipare, figlia dei tempi a venire, le rivoluzioni nazionali ancora da farsi, messa in scena da un potere centrale sicuramente reazionario? Guillaume Tell
conserva, nella sua complessità, tutti i caratteri enigmatici del suo creatore.