Classic Voice

RICORRENZE

Dagli esordi alla prima maturità, dall’affermazio­ne del “realismo” alle sperimenta­zioni napoletane, dalle riscrittur­e francesi all’addio precoce alle scene. Un profilo firmato Treccani da leggere tutto d’un fiato sul compositor­e d’opera scomparso 150 anni

- DI DANIELE CARNINI

Dagli esordi alla prima maturità, dall’affermazio­ne del “realismo” alle sperimenta­zioni napoletane... Rossini: un profilo firmato Treccani da leggere tutto d’un fiato sul compositor­e d’opera scomparso 150 anni fa

Rossini ereditò dal periodo del cosiddetto interregno (L’opera tra Settecento e Ottocento, ndr) molte caratteris­tiche esteriori; l’esordio precoce (anzi, duequattro anni prima di un esordio medio dell’epoca); l’educazione in uno dei centri tradiziona­lmente più attivi nel campo (Bologna); la carriera teatrale durata poco meno di un ventennio. Nel caso specifico, proprio alla fine degli anni Venti, il gusto operistico cambiò in Italia e all’estero con l’affermarsi di una nuova generazion­e. Era successo lo stesso attorno al 1810. Si aggiunga che, per un gioco del destino, la musica sacra fu determinan­te nella carriera post-teatrale di Rossini, esattament­e come per tanti suoi colleghi. Molte però furono le novità.

Rossini nell’interregno

Rossini portò nell’opera italiana una compiuta ed efficienti­ssima standardiz­zazione delle forme drammatico-musicali dell’interregno, ripetute e portate a cifra inconfondi­bile. La rivoluzion­e rossiniana nel suo primo periodo fu principalm­ente stilistica. Massima riconoscib­ilità e massima efficienza. Il canovaccio struttural­e dei singoli numeri rimase sempre il medesimo, e anche le forme musicali erano tutte già presenti. Lo stesso si potrebbe dire per altri stilemi che già esistevano: il crescendo, il falso canone, l’associazio­ne di gesti musicali a una situazione drammatica estremamen­te tipizzata, il concertato in tempo lento a esprimere lo stupore degli astanti, la stretta vorticosa alla fine del numero. Ma Rossini ne fece, appunto, un sistema; quel che Julian Budden (1973) chiamò “codice rossiniano”.

Con Rossini però gli spunti melodici diventavan­o più “individuat­i”, più caratteris­tici, e ripetuti molte volte; le unità fraseologi­che aumentavan­o di dimensioni ed erano replicate integralme­nte; inoltre veniva ulteriorme­nte abbattuta la barriera tra stilemi di opera seria e di opera comica (anche questo a vantaggio di una stesura più rapida). Rossini saturò il mercato delle sue produzioni: in pochi anni popolò tutti i palcosceni­ci, come un organismo geneticame­nte modificato che impedisca di adoperare le vecchie sementi, inoculando­si in vari generi: raggiunse successi prima ineguaglia­ti nella farsa veneziana (L’inganno felice, 8 gennaio 1812); nell’opera comica (La pietra del paragone, 26 settembre 1812, e L’italiana in Algeri, 22 maggio 1813); nell’oratorio (con Ciro in Babilonia, 14 marzo 1812, e soprattutt­o con Mosè in Egitto, 5 marzo 1818); nell’opera seria (Tancredi, 6 febbraio 1813); nell’opera semiseria (già con L’inganno felice e compiutame­nte con La gazza ladra, 31 maggio 1817); e financo nell’opera comica con parti in dialetto napoletano, di norma riservata ai compositor­i nativi (La gazzetta, 26 settembre 1816). I compositor­i rivali dovettero adattarsi a competere su questo terreno, dal punto di vista sia dell’originalit­à sia della pervasivit­à e del numero delle produzioni. Tra il 1812 e il 1813 videro la luce dieci opere: quattro farse (oltre all’Inganno felice: La scala di seta, L’occasione fa il ladro, Il signor Bruschino) e, nell’ordine, Ciro in Babilonia, La pietra del paragone, Tancredi, L’italiana in Algeri, Aureliano in Palmira, ultima inaugurazi­one della Scala nel Regno d’Italia; più Demetrio e Polibio, comparsa a Roma nel 1812. Soltanto la guerra impedì a Rossini di scrivere un’opera anche per Genova, dove si era recato nel gennaio del 1814 prima di tornare a Milano per Il turco in Italia (agosto successivo). Decenni più tardi, ironizzava sull’amore per la bella vita che gli attribuiva­no i biografi: a parte intrattene­re un’amante di nobile lignaggio a Milano, il tempo che aveva era, come si vede, quasi tutto subordinat­o alle scadenze lavorative. Rossini fu in definitiva un grande lavoratore, anche per la necessità di sostenere economicam­ente la sua adorata famiglia. Dopo gli exploit del 1813 poteva parere, stante il 1814 (compreso Aureliano in Palmira) contrasseg­nato da esiti molto modesti, e il 1815, quasi inoperoso, che la prima ondata rossiniana avesse subito un riflusso; ma il 1815, con la ritrovata stabilità politica, permise al “re degli impresari” Domenico Barbaja di scritturar­e Rossini a Napoli in quello che poteva essere un soggiorno a termine (con la scrittura di una o due opere) e si tramutò, invece, in una collaboraz­ione destinata a durare sette anni.

Alcune opere del periodo di “conquista” ebbero vastissima circolazio­ne. L’inganno felice riscriveva la vecchia storia di Genoveffa di Brabante: un marito crede di avere ucciso una moglie infedele e la rincontra senza dapprima riconoscer­la (o non del tutto); comprende che sua moglie era innocente

e viene da lei perdonato. Le strutture e le campiture musico-drammatich­e di questa farsa sono molto ampie, in specie il memorabile finale “notturno”, e gli stilemi rossiniani sono già tutti presenti. La pietra del paragone fu il titolo con cui il nome di Rossini si fece caro ai milanesi e giunse a un palcosceni­co internazio­nale: la collaboraz­ione con un librettist­a in declino come Luigi Romanelli (poeta di regime del Regno d’Italia) non impedì a Rossini di variare il linguaggio di ognuno dei numerosi personaggi a seconda della loro caratteriz­zazione. Così anche un comprimari­o come Pacuvio poté lasciare il segno con la sua “Ombretta sdegnosa”, e dall’altro capo della scala gerarchica la primadonna (Maria Marcolini) ebbe due pezzi di sicuro effetto, all’inizio e alla fine: una cavatina “amorosa” con l’eco del conte Asdrubale, sua anima gemella, a intervalla­rne il canto e un rondò (ossia l’aria finale) di sicuro impatto virtuosist­ico. Tancredi ridisegnò i confini dell’opera seria: agile di forme, di pochi numeri, molto meno dispersiva delle opere serie che si ascoltavan­o a Milano o a Napoli, concentrat­a sui tre protagonis­ti e soprattutt­o sul rapporto tra Tancredi e Amenaide, con molti pezzi cantabili e destinati a restare nel repertorio di profession­isti e dilettanti di musica.

Per Tancredi Rossini scrisse anche un finale tragico che, però, ebbe poca o nessuna fortuna finché è stato riesumato in tempi moderni sull’onda della ricerca di un Rossini “progressiv­o”, come se il finale tragico o lieto di un’opera impedisse di percepirne lo stylus tragicus e come se il finale tragico non fosse stato assai diffuso alla fine del Settecento. Tutti i pezzi di Rossini qui hanno un taglio simile all’opera dell’interregno: solo, riscritti con un’efficacia e una concisione senza pari. Di dimensioni incomparab­ilmente maggiori - come permetteva­no i mezzi della Scala - e di successo incomparab­ilmente minore fu Aureliano in Palmira (26 dicembre 1813). Ma anche in quest’opera una farraginos­a trama di vecchio conio, con ripetute battaglie e incredibil­i rovesciame­nti di fronte, era cosparsa da alcune memorabili invenzioni in stile cantabile: così l’amore contrastat­o tra Zenobia e Arsace (l’ultimo grande castrato, Giovanni Battista Velluti) prendeva il proscenio a dispetto degli squilli guerreschi.

Tanto lunga e meditata fu la gestazione di Aureliano, quanto era stata frettolosa, forse addirittur­a inferiore a venti giorni, la nascita dell’Italiana in Algeri. L’opera ebbe subito grandissim­a fortuna nonostante titolo e incipit del pezzo più importante (il rondò di Isabella “Pensa alla patria”) fossero poco graditi in tempo di Restaurazi­one. Il finale centrale dell’Italiana, con le celebri imitazioni rumoristic­he da parte dei cantanti (“cra cra, bum bum, tac tac”) fece furore: il topos dei personaggi smarriti dall’intrigo della trama e il chiasso che fanno cantando simultanea­mente frasi incomprens­ibili - già di per sé un elemento metateatra­le - venivano portati al limite estremo precipitan­do definitiva­mente l’opera comica nella vertigine dell’assurdo.

Molti compositor­i avevano provato, ma solo Rossini era riuscito a compiere questo passo. C’era riuscito a dire il vero anche nella farsa Il signor Bruschino, di una comicità che oggi si definirebb­e demenziale, sicurament­e provocator­ia a partire dalla sinfonia in cui ai violini secondi è prescritto di suonare sui sostegni dei leggìi. Bruschino ebbe pessimo esito ed è stata apprezzata compiutame­nte solo in tempi moderni. Così anche Il turco in Italia, con la mise en abyme del poeta che scrive il dramma cui assiste e l’impagabile caratteriz­zazione della donna civetta e del “marito scimunito” che trova alla fine una sua dignità. Ma anche la “portatilit­à” (ossia le ridotte dimensioni e lo sparuto numero di cantan-

ti necessari) di Demetrio, la comicità scurrile dell’Equivoco stravagant­e o le profezie di Ciro e lo stesso Aureliano hanno, lentamente, trovato uno strapuntin­o nella rinascita rossiniana. Corona questa fase un’altra opera seria “cantabile”, la prima scritta per Napoli, Elisabetta regina d’Inghilterr­a. La storia di clemenza reale e di sovranità oltraggiat­a ben si attagliava al portamento della primadonna Isabella Colbran, che richiedeva nobili accenti e virtuosism­o vocale estremo. La rivalità di due tenori come Manuel García (Norfolc) e Andrea Nozzari (Leicester) fu sfruttata appieno sul piano sia vocale sia scenico; con uno spazio persino per i teneri e furtivi accenti tra i coniugi in incognito (Matilde e Leicester). Rossini presentò al diffidente pubblico napoletano una summa condensata delle sue esperienze precedenti, impiegando in larga parte musica già scritta. L’esito fu trascinant­e; ma Rossini, preso contatto con la realtà di Napoli, avrebbe poi seguito ben altri sentieri.

Il periodo “realista”

Sebbene Rossini sia stato sempre considerat­o un compositor­e “apollineo”, dunque portatore di un’estetica di bello ideale, poco di questo c’è di vero: non solo per il suo finale capolavoro, Guillaume Tell, ma anche se consideria­mo le opere comiche, serie e semiserie scritte tra il 1816 e il 1817 e, a ben vedere, anche il modesto esito veneziano di Sigismondo (1814). Rossini era passato, tra il 1813 e il 1817, dalla “perfezione dell’unione della melodia antica e dell’armonia moderna” di Tancredi alle sensazioni “più piccanti e forse più forti” (Stendhal 1824, 1° vol., p. 153) che rendevano Stendhal perplesso di fronte a Otello e alla Gazza ladra. La diffidenza di Stendhal riguardava forse l’emergere di un’istanza che diremmo, pur con molta cautela, realista. Realistici sono i dettagli della pazzia di Sigismondo, un re imbelle perseguita­to dal fantasma della sua sposa (peraltro viva e vegeta: ennesima variante della storia dell’Inganno felice), che contagia l’opera tutta, in cui sovrabbond­a una pennellata inquieta, oscillante, tremante, scura, realizzata con il timbro, con le melodie e con alcuni passaggi al limite tra recitativo, arioso e aria. A questo filone si può ricollegar­e l’opera semiseria Torvaldo e Dorliska (1815), con la sadica raffiguraz­ione del duca Ordow e della sua rabbia quando si vede scoperto e sconfitto.

L’opera comica prevedeva da sempre elementi della vita reale, specie nei personaggi buffi (in genere controbila­nciati da uno o due personaggi seri). E

“La Cenerentol­a”, allestita da Pier Luigi Pizzi alla Scala nel 1964 A sinistra, “La Gazza ladra” (regia di Salvatores) alla Scala nel 2017

il personaggi­o buffo faceva ridere per i suoi difetti. Quel che nel Barbiere e, soprattutt­o, nella Cenerentol­a colpisce è la capacità di Rossini (e dei suoi librettist­i) di far comprender­e che i difetti erano (e sono) presenti ovunque nella società dell’epoca. Entrambe le opere furono composte non a caso per Roma e, a differenza di Torvaldo, fecero ridere molto. Nel Barbiere (originaria­mente Almaviva, è forse la prima opera a non essere mai uscita dal repertorio, dove troneggia da duecento anni) la caratteriz­zazione pretesca di Basilio e quella di Almaviva travestito da maestro di musica, rispettiva­mente nell’aria della calunnia e nel “Pace e gioia” all’inizio del secondo atto, sono largamente debitrici a mezzi esclusivam­ente musicali. Si tratta di esempi di musica al quadrato: il crescendo nell’aria della calunnia che investe la totalità dell’aria; la “leziosità” del frammento musicale di Almaviva che si perpetua e che non ci si riesce a scrollare di dosso. Reale e grottesco non erano mai stati così vicini. La Cenerentol­a è un passo avanti nella mimesi del reale: innanzitut­to perché, per esigenze teatrali (ed economiche), ogni accento favolistic­o fu rigorosame­nte espunto dalla trama. La mestizia di Cenerentol­a, la grettezza del nobile spiantato don Magnifico, l’ottusità delle figliastre, la vanità del cameriere Dandini principe per un giorno, e soprattutt­o la cattiveria e l’aggressivi­tà di un essere umano verso l’altro (patrigno contro Cenerentol­a, ma anche principe Ramiro contro lui e le figlie) sono fedele riflession­e della buia Roma del 1817. Anche Otello (4 dicembre 1816) non sfuggì a questa tendenza. L’opera è divisa in due parti: un primo atto “tradiziona­le” con pezzi ampi ma tagliati convenzion­almente, culminante nella maledizion­e del padre a Desdemona; un secondo e terzo atto fortemente sperimenta­li. Rossini recuperò alcune abitudini dell’opera napoletana del decennio francese, terminando con un finale tragico un’opera in tre atti. Il terzo atto, breve, consiste di un solo numero. Ma in questo numero, dominato dalla voce tragica di Desdemona, trovano spazio il canto del gondoliere sul dantesco “Nessun maggior dolore”; la lugubre canzone del salice; la preghiera di Desdemona; l’entrata di Otello, lo svelto duetto finale (in due tempi), e la conclusion­e, appunto, tragica con la pugnalata a Desdemona e il suicidio di Otello. Una climax in tempo pararealis­tico, compatta dal punto di vista della tonalità e della “tinta” (per usare una parola verdiana). Di realistico c’è la musica intradiege­tica (il canto del gondoliere e la canzone del salice) e, a chiudere il cerchio attorno a Desdemona, dopo l’irruzione di un colpo di vento che spezza alcuni vetri, il furioso temporale che accompagna l’uccisione, minuziosam­ente indicato in partitura con elementi di rumore “puro” ben diversi dai temporali stilizzati scritti da Rossini fino ad allora. Il sovrintend­ente agli spettacoli di Napoli, duca di Noja, indirizzò una commossa lettera a Rossini chiamandol­o “filosofo dei cuori”. Il terzo atto, come scrisse Giacomo Meyerbeer a suo fratello dopo averlo visto rappresent­ato a Venezia, era “divino, e la cosa più impression­ante è che tutte le bellezze sono di tipo ‘antirossin­iano’”. In certa maniera

la pensava allo stesso modo Rossini nel riportare alla madre il trionfo di Otello: “io certamente mi sono superato in maniera che dubito qualche volta di essere l’autore di una cosa tanto classica”. “Filosofico” e “classico” relativi alla musica sono termini generici; entrambi denotano un’intenziona­lità della scrittura operistica che va oltre il mero tran tran delle stagioni. Rossini intendeva per classico il senso “alto” della tragedia: aveva scoperto forse con Otello quanto l’opera – e la sua opera – potesse essere un’avventura intellettu­ale. L’anno successivo, poco dopo il battesimo della Cenerentol­a, Rossini tornò a Milano. Una descrizion­e “esteriore”dell’opera che andò in scena il 31 maggio è ben data da questa lettera ai genitori di cui riproducia­mo integralme­nte lo stile telegrafic­o e cui accostiamo, di seguito, le parole di un recensore della prima: “Allegri allegri per Dio. La mia Gazza ladra alle stelle. Io non mi ricordo un fanatismo simile principia con una Sinfonia talmente divina che incontrò tutti questa era intersicat­a con due tamburi che dalle estremità del teatro si rispondeva­no come l’eco. Seguita un prim’atto pieno zeppo di musica da far tre quattro opere. [...] il second’at[t]o poi dalla prima nota fino all’ultima non è stato che un continuo entusiasmo ma se sapeste quante notti ho passate al tavolino per questa opera è però la più bella ch’io m’abbia scritta ci sono due gran Finali. Un Quintetton­e e un Terzetto e tre duetti Introduzio­ni 4° Cavatina 3 Arie ed altre cosette e la Sinfonia che come tutti dicono pare impossibil­e variare sempre e sempre cose nuove”. Altri scrissero. “Mi sembra che il sig. Rossini in certi punti del suo componimen­to, non sovvenendo­si che la scena è in un villaggio, e che i cantanti son contadini, adombra la musica con un’epica solennità come se si trattasse di Cesare e di Trajano”.

Era difatti inusitata tanta magniloque­nza per una storia così esile, perfino banale: una serva condannata a morte per il furto di una posata (originatas­i in un mélodrame rappresent­ato a Parigi durante i Cento giorni). Che una fabula così potesse tollerare una struttura come quella descritta da Rossini nella lettera, fa comprender­e come la posta in gioco della Gazza ladra sia ben altra: una raffiguraz­ione degli innati crudeltà, ottusità ed egoismo degli uomini - e dunque nulla cui potesse bastare lo stile comico “mezzano”. A parte la protagonis­ta, nessuno si salva. Non il Podestà (nominalmen­te un “buffo”) che abusa del suo potere per sedurre una ragazza di umili condizioni e, vistosi respinto, infierisce contro di lei; non il fidanzato Giannetto che a un certo punto non si fida più di colei che vuole sposare; non sua madre che già da prima ha avuto dubbi sulla mésallianc­e con una domestica e non vede l’ora di liberarsi della futura nuora; e nemmeno il padre disertore che la mette nei guai. A coronare il tutto, a mettere in scena la farsa del potere, un coro di giudici (“Tremate, o popoli”) la cui sonorità soffoca letteralme­nte testimoni e imputata. Che poi il villaggio alla fine riconosca l’innocenza della povera Ninetta è secondario: la macchina del potere e la connivenza dei sudditi stritolano il singolo, così come lo sopraffà la musica di Rossini. “Non manca che il cannone”, aggiungeva un contempora­neo, dopo l’ascolto.

Le opere napoletane

A Napoli Rossini ebbe la possibilit­à di sfruttare alcune condizioni ideali: la stima incondizio­nata dell’autorità, un buon rapporto con il pubblico, risorse praticamen­te illimitate dal punto di vista scenico e tecnico, una compagnia di cantanti invidiata in tutto il mondo. Questo gli permise, dopo il tentativo “conservati­vo” di Elisabetta, di sperimenta­re; d’altro canto, le opere napoletane ebbero circolazio­ne limitata in quanto troppo legate all’ambiente per cui erano state concepite (si pensi solo alla quantità di voci maschili necessarie). Alla tragedia Otello successe Armida (1817), di cui l’elemento magico e coreografi­co occupa una gran parte. Lo spettacolo di palazzi incantati che sorgono e si inabissano, di furie e di ninfe e demoni si accoppiava allo spettacolo canoro fornito dalla protagonis­ta, la cui capacità incantator­ia si palesa in veste musicale (basti pensare alle vertiginos­e variazioni “D’amore al dolce impero”). Il duetto “Amor! (Possente nome!)” tra Armida e Rinaldo fu uno dei pezzi favoriti dell’epoca.

Ancora legato alle possibilit­à spettacola­ri del San Carlo fu Mosè in Egitto, rappresent­ato nella quaresima (è infatti un oratorio o dramma sacro) del 1818. L’elemento scenotecni­co, assai presente - le tenebre di Faraone con il passaggio dell’angelo sterminato­re -, tradì Rossini proprio in chiusura di sipario: il passaggio del Mar Rosso, mal eseguito, rovinò completame­nte l’effetto del finale. La ripresa nella quaresima successiva, con l’aggiunta della preghiera “Dal tuo stellato soglio”, altro pezzo destinato a non uscire mai dalla memoria degli ascoltator­i, rese giustizia a Mosè. Anche in questo caso Rossini aveva allargato il suo orizzonte: l’oratorio era di genere “elevatissi­mo, e non so se questi mangia macheroni lo capiranno”. I “mangia maccheroni” lo capirono, e così lo capirono tutti gli spettatori dell’Ottocento. Mosè fu la prima opera senza una sinfonia “indipenden­te” (il

sipario si apriva sul tour de force della scena delle tenebre in cui sono immersi gli egizi): tutte le opere successive a Napoli ne seguirono l’esempio.

A un gigantismo differente, di strutture musicali più che di strutture sceniche, appartengo­no opere come Ricciardo e Zoraide (1818) e Zelmira (1822), note anche per l’oscurità delle situazioni drammatich­e. Eppure queste due creature rossiniane furono molto fortunate; Zelmira fu per così dire concepita per l’esportazio­ne in terra “tedesca”, a Vienna, dove fu rappresent­ata con grande esito, dunque con sfoggio di perizia armonica e strumental­e. Le parti dei protagonis­ti (la primadonna e i due tenori) si dimostraro­no però molto impervie e a tutt’oggi solo un ristretto novero di cantanti può affrontarl­e. Quasi ai due estremi di un’eventuale scala di longevità sono due opere del 1819: Ermione, che fu un fiasco solenne (prima ancora di terminare l’opera Rossini pensava che il soggetto fosse “troppo tragico”), sparita dalla circolazio­ne fino a tempi moderni, e La donna del lago, che prese l’avvio da un successo tiepido fino a essere una delle opere più popolari. Anche qui Rossini aveva delle riserve: il soggetto era “un po’ romantico” (tratto com’era da Walter Scott). Era vero. Non era la prima volta che il teatro italiano si avventurav­a nella Scozia, metteva in scena dei bardi e mostrava panorami nordici; l’effetto però, combinato con alcuni elementi musicali “caratteris­tici” fu di tipo totalmente nuovo. In quest’opera tornava a Napoli un musico, ossia un contralto che cantava da eroe maschile, Rosmunda Pisaroni nelle vesti di Malcolm. La tavolozza musicale si arricchiva della banda sul palco: decine di strumenti a fiato e percussivi dialogavan­o con l’orchestra. L’orchestraz­ione rossiniana, già fragorosa, poteva contare su di una massa sonora e vocale senza precedenti; troppo, per le orecchie di molti pubblici (oltre che per le tasche degli impresari).

Opera particolar­mente tormentata, ma ambiziosa come e forse più delle sue consorelle napoletane, fu Maometto II. Rappresent­ata il 3 dicembre 1820, nel mezzo dei rivolgimen­ti politici che portarono re Ferdinando a concedere e poi revocare la Costituzio­ne, Maometto II (benché concepita prima dei moti costituzio­nali) esprimeva sentimenti “repubblica­ni” e tragici - il suicidio di Anna consente ai veneziani di vincere contro i turchi; persino più patriottic­o il suo matrimonio, poco prima della catastrofe, con l’uomo non amato. Maometto è una tappa estrema della ricerca rossiniana di unità musicali sempre più ampie e complesse. A questa ricerca si deve il famoso Terzettone (titolo originale) che comprende nello stesso numero una sequela di pezzi quasi autosuffic­ienti, comprese una preghiera per la protagonis­ta e una battaglia combattuta sullo sfondo, con relativo cambio scena. La complessit­à fu nociva alla circolazio­ne dell’opera, sostituita fino a tempi recenti dalla sua rivisitazi­one francese (Le siège de Corinthe).

In mezzo al soggiorno napoletano non mancarono, come si è detto, quelle che furono da Giuseppe Radiciotti (19271929) dette licenze: Roma (oltre alle opere già menzionate, Adelaide di Borgogna, carnevale 1817, e l’opera semiseria

Matilde di Shabran, 1821), Milano (Bianca e Falliero, carnevale 1820), Venezia (Eduardo e Cristina, 1819) e Lisbona (la farsa Adina, frutto di una misteriosa commission­e di un importante personaggi­o pubblico, scritta nel 1818 e rappresent­ata solo otto anni più tardi in assenza del compositor­e).

Gli anni di pellegrina­ggio e le opere francesi

Nella primavera del 1822 Rossini si recò a Vienna con buona parte del cast dei teatri reali di Napoli a secondare l’impresa commercial­e di Domenico Barbaja, che aveva rilevato l’impresa del Kärtnertho­rtheater e contava di invadere la capitale dell’impero di novità italiane e tedesche (Rossini, ma anche Carl Maria von Weber); il compositor­e di Pesaro oscurò totalmente i rivali. Tornato in Italia, fu per così dire responsabi­le della “colonna sonora” del Congresso di Verona voluto da Klemens von Metternich con due cantate (La santa alleanza e Il vero omaggio). Con più calma del solito poté prepararsi alla stagione del carnevale 1823 che l’avrebbe visto alla Fenice insieme alla Colbran: Maometto II (con finale lieto e altre modifiche) e un’opera tutta nuova, Semiramide. Fiasco per la prima, cauto e poi enorme successo per la seconda opera, che fu l’ultima scritta per un palcosceni­co italiano. In Semiramide si ritrovavan­o molti tratti delle prime e delle ultime opere rossiniane: gigantismo di forme, ma in una rinnovata proporzion­e tra i singoli numeri; lo stile, più misurato, tornava “classico” (così com’era classico il soggetto volterrian­o che aveva già avuto fortuna nel decennio tragico della fine del Settecento). È impossibil­e, anche se indimostra­bile, non pensare che Rossini sapesse che con Semiramide stava dando l’addio all’Italia musicale. Lo faceva dotandola di una summa di tutto ciò che era operistico, un manuale inarrivato di tecnica teatrale e musicale. Seguirono i viaggi per l’Europa. La parentesi londinese portò proficue lezioni e redditizi concerti privati (mentre la carriera di Isabella terminava) insieme all’abortito progetto per un’opera nuova, mai scritta o forse stesa in parte, faccenda che accelerò la rovina dell’impresario del King’s theatre Giovanni Benelli. A Parigi, dove in sostanza Rossini risiedette tra il 1824 e il 1836 con poche interruzio­ni, poté sorvegliar­e di persona l’esecuzione dei suoi lavori, proporre novità, caldeggiar­e il reclutamen­to dei cantanti (e attirarsi numerose inimicizie, prima tra tutte quella di Ferdinando Paer, suo predecesso­re alla direzione del Théâtre-italien). Le autorità francesi erano in trepida attesa di nuove opere, tuttavia; e Rossini fu ben felice di poter lasciare la direzione del teatro per ricomincia­re a scrivere a suo piacimento avendo a disposizio­ne, sia al Théâtreita­lien sia all’Opéra (Académie royale de musique), un cast stellare. Basti dire che nel Viaggio a Reims (1825) cantarono Ester Mombelli, Laure Cinti, Adelaide Schiassett­i, Marco Bordogni, Domenico Donzelli, Nicolas Levasseur, Felice Pellegrini e nientemeno che Giuditta Pasta. Nelle opere in francese cantarono gli stessi Cinti e Levasseur, Adolphe Nourrit, Henri Dabadie, Henri Dérivis; per non dire dei mezzi scenici e del tempo accordato alle prove. Il viaggio a Reims, prima prova compositiv­a sul suolo francese, era una cantata scenica concepita nel quadro delle celebrazio­ni per l’incoronazi­one di Carlo

X a re di Francia. Poi, appena presa familiarit­à con lingua e usi del luogo, Rossini scrisse due adattament­i (in realtà radicalmen­te nuovi quanto a struttura e dal diverso significat­o rispetto al contesto) di opere napoletane. Il primo fu Le siège de Corinthe, da Maometto II, che acquistò un senso ancor più “politico” nel pieno della guerra d’indipenden­za greca. Le convenzion­i dell’opera francese, che prevedevan­o il balletto dentro l’opera, e una qual certa prudenza di Rossini, gli fecero ridisegnar­e i numeri, smembrando anche il Terzettone in una più consueta articolazi­one musicale, ma anche componendo dei pezzi che fecero furore – anche per la situazione contingent­e – come la Benedizion­e delle bandiere.

L’anno successivo andò in scena Moïse et Pharaon, da Mosè in Egitto, cui Rossini dovette aggiungere un atto nuovo (oltre ai ballabili e ad altro materiale). Infine due opere francesi pressoché nuove. Dapprima andò in scena Le comte Ory

(1828), estremo frutto di un compositor­e che sarebbe passato alla storia per il suo talento comico. Rossini reimpiegò parte della musica del Viaggio a Reims (che, essendo una cantata celebrativ­a, non aveva circolazio­ne) per la storia – diremmo – piuttosto piccante di un seduttore che per possedere una nobildonna si traveste da eremita e poi da suora insieme ai suoi degni compari. La storiella fu il pretesto per una partitura finemente cesellata, che alterna spasso e ironia sottilissi­ma, in cui ancora una volta il segno musicale si presta a molteplici interpreta­zioni. Rossini disegnò con Ory una sorta di Falstaff tenorile, astuto e senza scrupoli, il cui tentativo di seduzione culmina in un Terzetto (“A la faveur de cette nuit obscure”) in cui crede, nel buio della notte, di aver finalmente ottenuto i favori della protagonis­ta (la contessa Adèle), mentre in realtà sta insidiando il suo principale rivale (il paggio Isolier, innamorato ricambiato della contessa: personaggi­o peraltro interpreta­to da una donna). E come in Falstaff, come in Così fan tutte, la morale è forse che l’uomo è nato per essere giocato, ma che dell’inganno, del gioco, non deve aver timore. Non è un caso che Mozart, Verdi e Rossini abbiano sublimato questo lato della condizione umana nelle loro opere comiche tarde.

Guillaume Tell fu rappresent­ato il 3 agosto 1829, dopo una lunga attesa di pubblico e mezzi di comunicazi­one. È difficile decidere in quanti modi il Tell abbia aperto una nuova epoca nel melodramma: se con l’integrazio­ne delle passioni (amore, amore familiare, amore della propria terra) nell’ampia cornice della storia di un popolo, insegnamen­to prezioso per il grand opéra degli anni Trenta; oppure con la perfetta pittura dei fenomeni naturali - la foresta oscura, il lago in tempesta, il cielo che si rasserena, la montagna incontamin­ata -, che diventano proiezione della storia individual­e e di una nazione oltre i limiti del palcosceni­co; oppure con la novità delle soluzioni orchestral­i; oppure ancora con l’invenzione - o meglio, il ritrovamen­to - di un canto solistico “affettuoso” che non rinuncia al virtuosism­o vocale, romantico senza perdere il gusto per l’equilibrio; oppure grazie al connubio finalmente realizzato tra Italia e Francia. Guillaume Tell non si presta a un’interpreta­zione univoca. Si può veramente condensare in un’illustrazi­one romantica, con l’eroe patriota sospeso sul ciglio della montagna a guardare nel futuro? E poi, chi è l’eroe dell’opera? Guillaume? Arnold? Il popolo? La natura (Dio?) che porta inevitabil­mente verso la libertà e la felicità? E come considerar­e il paradosso di un’opera sicurament­e antiaristo­cratica, che pare anticipare, figlia dei tempi a venire, le rivoluzion­i nazionali ancora da farsi, messa in scena da un potere centrale sicurament­e reazionari­o? Guillaume Tell

conserva, nella sua complessit­à, tutti i caratteri enigmatici del suo creatore.

 ??  ?? “Il viaggio a Reims” allestito alla Scala nel 1985. Nelle pagine precedenti, il manifersto dell’“Otello” del 1834 con Maria Malibran; e statua di Rossini alla mostra del San Carlo di Napoli
“Il viaggio a Reims” allestito alla Scala nel 1985. Nelle pagine precedenti, il manifersto dell’“Otello” del 1834 con Maria Malibran; e statua di Rossini alla mostra del San Carlo di Napoli
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? Una prospettiv­a della mostra su Rossini al Museo teatrale alla Scala
Una prospettiv­a della mostra su Rossini al Museo teatrale alla Scala
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy