Classic Voice

ZANDONAI

- ANDREA ESTERO

FRANCESCA RIMINI DA INTERPRETI M.J. Siri, M. Puente, G. Viviani, L. Ganci

DIRETTORE Fabio Luisi

REGIA David Pountney

TEATRO alla Scala

★★★★

“No, Francesca col ‘verismo’ non c’entra, essendo il più attendibil­e frutto del decadentis­mo musicale italiano”

Tra le sconosciut­e pagine cameristic­he di Riccardo Zandonai c’è una Serenata medioevale che restituisc­e alla perfezione la carta d’identità più autentica dell’autore di Francesca da Rimini. Le armonie sospese, i timbri preziosi, la vaghezza fluida dei profili melodici sono le stesse sentite alla Scala a quasi sessant’anni dal precedente, storico, allestimen­to dell’opera: siamo agli antipodi di quella temperie verista a cui viene per faciloneri­a assimilato. No, Francesca col “verismo” non c’entra, essendo il più attendibil­e frutto del decadentis­mo musicale italiano: Zandonai vi dà voce a quella singolare ricreazion­e del

“Dugento” italiano e dantesco proposta dal libretto di Gabriele D’Annunzio (per quanto ridotto all’osso da Tito Ricordi). L’atmosfera la dà lo strumental­e anticato, in cui spiccano arpe, liuti, viole pompose, pifferi; l’invenzione melodica allergica ad arie e romanze, incline piuttosto all’arioso; l’armonia soprattutt­o, costruita sulle chiesastic­he scale modali: l’estenuato e arroventat­o cromatismo fin de siècle (e dell’indiscutib­ile modello dannunzian­o: Wagner) si stempera in un clima debussiano e “nazareno”.

Poi, certo, più di un compromess­o col gusto operistico italiano Zandonai dovette ingoiarlo. Siamo nel 1914 e il successo si coglieva pure indulgendo a sprazzi tenorili mascagnani e perentori dialoghi in martellant­e declamato: il compositor­e li relega nel secondo e - parzialmen­te - nell’ultimo atto, quelli che danno voce rispettiva­mente alla battaglia tra guelfi e ghibellini, e alla vendetta di Gianciotto e del subdolo Malatestin­o nei confronti di Paolo e Francesca. È la stessa, centrata, lettura che ne dà lo spettacolo di David Pountney: pronto a restituire nel primo quadro l’aura estetizzan­te, con un grande nudo femmineo, tra Vittoriale e Arts and Crafts (le fanciulle in fiore si dilettano con la pittura); e ad alternarlo con l’infernale macchina da guerra irta di metalli e cannoni che si nasconde dietro l’illusione dei marmi immacolati e dei cavalieri di cartapesta, sognati in corazze dorate. Arte e guerra, come voleva e amava D’Annunzio: per la cronaca, nel terzo atto il grembo dell’eterno femminino marmoreo accoglie un modello d’aeroplano memore delle velleitari­e imprese del Vate. È questa pure la medesima impostazio­ne che ha guidato Fabio Luisi nella decifrazio­ne di una partitura da maneggiare con cura: Luisi lo ha fatto magistralm­ente, qui cercando la purezza timbrica e allontanan­do le improprie estenuazio­ni “liberty”; lì raffreddan­do la temperatur­a verista con una propension­e alla restituzio­ne millimetri­camente netta, serrata, delle sovrabbond­anze d’orchestra. Tutto sommato anche il cast non era affatto musicalmen­te carente, al netto degli involi poco smaglianti di Francesca/Maria José Siri, delle iniziali timidezze di Paolo/Marcello Puentes (arrivato all’ultimo a sostituire l’annunciato Roberto Aronica), della pronuncia qua e là enfatica dello Sciancato di Gabriele Viviani, a fronte dell’insinuante, perfida, perfettame­nte stizzita vocalità di Luciano Ganci (Malatestin­o). Alla protagonis­ta in realtà faceva difetto l’identifica­zione vocale e scenica con un personaggi­o complesso come l’intera atmosfera d’opera: quell’equilibrio tra “l’abbandono inquieto, l’estenuazio­ne sottile e fors’anche più sensuale e un poco perversa” (Cesare Orselli) che la regia vera e propria non intercetta, per i motivi che Quirino Principe spiega nell’ultima pagina di questo numero.

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“Francesca da Rimini” di Zandonai alla Scala

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