VERDI MACBETH
INTERPRETI E. Azizov, S. Branchini, R. Scandiuzzi, B.M. Todenes
DIRETTORE Daniele Rustioni
REGIA Ivo van Hove
TEATRO Opéra de Lyon
★★
“Ben altrimenti verdiana, viceversa, la direzione. Sempre in tensione, ricchissima di colori, chiaroscuri, contrasti dinamici, elasticità ritmica incrementata da un uso intelligente del rubato”
Le ragioni per le quali il Don Carlos, pilastro centrale del lionese Festival Verdi, è stato una grande riuscita, stanno a fronte di quelle per le quali Macbeth non lo è. Uno spettacolo del 2012, basato sull’idea di base dell’essere il vero potere da conquistare con ogni mezzo non importa quanto illecito, sia oggi quello della finanza. Idea che van Hove dichiara aver mutuato dal film Margin Call di Chandor, ma che a dire il vero a me pare piuttosto copiata di sana pianta dallo spettacolo di Calixto Bieito nel 2005 a Francoforte, ambientato Macbeth all’interno della locale Commerzbank ideata da Norman Foster: con le stesse streghe quali impiegate; stesso Duncan vecchio rapace mafioso Chief Executive; stesso Macbeth in completo gessato con laptop che scrive alla moglie; stesse apparizioni infernali tradotte in vertiginosi andirivieni di listini di borsa; stesso Macbeth che alla fine non muore perché perdere il potere (ovvero i soldi) è oggi peggio della morte. Con una non piccola differenza: Bieito organizzava il tutto con parecchi dei suoi ben noti eccessi trash (sangue a litri e perversioni sessuali, comprensive d’un fisting che le streghe
infliggono a un indifferente Macbeth, un ancora poco noto ma già molto bravo Zeljko Lucic), ma con una tensione, una coerenza, un’efficacia drammaturgica, ben altrimenti efficaci di quelle mostrate qui da van Hove.
Scena unica, tutta sul grigio aziendale per far meglio spiccare l’abito verde squillante – al pari delle cifre proiettate - di Lady, nonché i vividi colori del movimento OWS (Occupy Wall Street) in cui si tramutano i profughi scozzesi, che con la loro “marcia su Wall Street introducono una nota di utopistico ottimismo nel finale (comprensivo di sproloquio parlato d’un paio di minuti, che a mio avviso il maestro Ono allora, e Rustioni oggi, avrebbero dovuto risolutamente proibire), con tanto di video banalissimi a mostrare facce sorridenti ed estasiate, e chi poi governerà, con quali mezzi e quali intenzioni, è ben poco shakespearianamente e verdianamente lasciato all’immaginazione. Altra non poca differenza: diversi quiz e parecchie soluzioni drammaturgicamente incongrue perché d’inutile conflittualità con la musica. La bimba che si aggrappa a Lady la quale la respinge ma in seguito la cerca venendo adesso respinta, non è punto spiegata. La serva nera che attraversa tutta l’opera, indifferente a tutto e badando solo a rimettere inutilmente a posto il casino lasciato dalle impiegate, alla lunga stucca mica poco: d’accordo, il suo mettere ordine anche alla fine può gettare qualche (benefica) ombra di dubbio sulla tanto forzata utopia finale, ma è idea stiracchiata parecchio. Le apparizioni dei re sono molto suggestive nel riprendere l’idea di Bieito dei listini di borsa impazziti: ma il “rospo venefico che sugge l’aconito”, la “lingua di vipera”, il barbagianni che svolazza, tutti tradotti in cartoni animati sui video, fanno sghignazzare gran parte del pubblico, e l’effetto è risibile. Troppi video sono inutilmente macchinosi o intellettuali o entrambi. La Lady che legge la lettera stando accanto al marito, che mi vuol significare (e lasciamo stare il verso “Macbetto è seco?” rivolto a un commesso)? Il sonnambulismo con Macbeth presente, che poi strangola la moglie durante la sua successiva aria: ci dice davvero qualcosa di drammaturgicamente valido? Banalità gelida e senza pathos alcuno, rivestita di spocchioso cerebralismo: quanto di più antiverdiano si possa immaginare. Ben altrimenti verdiana, viceversa, la direzione. Sempre in tensione, ricchissima di colori, chiaroscuri, contrasti dinamici, elasticità ritmica incrementata da un uso intelligente del rubato: tutto in funzione d’un taglio narrativo che – al contrario di quanto accade sulla scena – non ha un solo attimo di cedimento. Un fior di voce bella e ampia, quella di Elchin Azizov: un pochino rozzo e a senso unico il fraseggio, ma nelle larghe frasi cantabili l’effetto è assicurato. Susana Branchini ha come sempre qualche nota acuta stridula che lede la bellezza altrimenti ragguardevole del timbro: ma la linea è solidissima, e soprattutto il lavoro sulla parola è di quelli da grande artista, provvista pure di quel carisma scenico che spesso ha ragione della banalità cui la tiene a freno la regia. Roberto Scandiuzzi libera il tesoro tuttora fascinosissimo della sua gran voce di vero basso, indirizzata dalla superiore maestria di fraseggiatore a un’aria magnifica e un ancor più magnifico arioso prima del grande finale primo, rendendo così al meglio una delle zampate più poderose tra quante dispensate da Verdi in questa partitura. Bella sorpresa, infine, Bror Magnus Todenes, sacrosanto vincitore del concorso Tebaldi 2015 e sostituto del pare catastrofico Arseny Yakovlev della prima: voce chiara, scorrevole, tutta sul fiato poggiato e proiettato benissimo, dizione perfetta.