CLASSIC VOICE ALBUM
Rigore, disciplina, pulizia quasi sacerdotale. Il pianismo del cubano Bolet ripensa la “golden age” rinunciando agli aspetti più flamboyant e spettacolari, ma rimanendo all’antica. Così il suo Liszt è trascendentale, ardito, ma anche classico
Rigore, disciplina, fermezza quasi sacerdotale. Il pianismo del cubano Bolet ripensa la “golden age” rinunciando agli aspetti più flamboyant e spettacolari, ma rimanendo all’antica. Così il suo Liszt è trascendentale, ardito, ma pulito come un classico
Quando a fine novembre del 1983 si ebbe l’occasione di ascoltare dal vivo a Milano per la prima volta il pianista cubano Jorge Bolet (1914 – 1990), grazie all’interessamento delle Serate Musicali, il pubblico si trovò di fronte un personaggio che sembrava uscito da un film d’altri tempi: un omone altissimo, con due baffetti fuori moda, il frac che lo faceva sembrare un maître d’hotel, o un diplomatico a una cena di gala. Un pianista che appena si sedeva al pianoforte, spesso un Bechstein, e attingeva al suo repertorio molto vasto e fondato essenzialmente sui classici, esibiva un suono che sembrava davvero provenire da luoghi e epoche lontani, un suono mai o raramente udito, di un colore tutto particolare, associato a criteri interpretativi che facevano del senso della misura e della proprietà stilistica una sorta di vangelo. Della carriera di Bolet iniziata negli anni 30 nessuno sembrava più ricordarsi, neanche gli americani che tutto sommato lo avevano riscoperto grazie a un recital alla Carnegie Hall organizzato nel 1974 e poi fortunatamente riversato in disco. Bolet aveva studiato al famoso Curtis Institute di Philadelphia con David Saperton, uno dei primi pianisti che aveva registrato una scelta dei temibili Studi da Chopin di Godowsky. Fece in tempo, Bolet, a prendere lezione dallo stesso Godowsky, uno dei grandi miti del pianismo della “golden age”, per diventare poi assistente
di Rudolf Serkin al Curtis dal 1938 al 1942. C’erano stati, è vero, numerosi recital alla Carnegie Hall tra il 1942 e il 1958, accanto a concerti tenuti in sale relativamente meno importanti, ma sostanzialmente il nome di Bolet non aveva mai raggiunto la fama assoluta, un po’ come era successo per il quasi coetaneo Shura Cherkassky, nato nel 1909. Il perché è presto detto: si trattava in entrambi i casi, è vero, di questioni di indole personale, di carattere piuttosto riservato, ma soprattutto di una collocazione storica che faceva di Bolet e di Cherkassky due sopravvissuti di un bel mondo che non esisteva più e dal quale non sapevano sostanzialmente staccarsi. Uno dei tanti motivi che concorrono allo sviluppo della carriera, meriti intrinseci a parte, è il saper prevedere, o almeno seguire con grande intuito i cambiamenti del gusto. Bolet e Cherkassky erano da un lato - per educazione e appartenenza stilistica - nella condizione di essere considerati “fratelli minori” di artisti nati attorno ai primissimi anni del secolo. Artisti di estrazione e di formazione diversa - come Horowitz, Arrau, Kempff, Serkin - che erano però riusciti sia a vivere personalmente l’insegnamento, l’esempio, dei grandi predecessori che al tempo del debutto di Bolet erano ancora sulla cresta dell’onda (Rachmaninov, Hofmann, Rosenthal, Cortot, Backhaus, persino Paderewski) sia, in età matura, a rileggere in maniera nuova il proprio repertorio, a seguire a loro modo l’evoluzione del gusto interpretativo. Furono capaci di alimentare il mito del “last romantic” attingendo però a un pianismo che sintetizzava il meglio di tutte le tradizioni possibili (Horowitz), o trovare una ragion d’essere nella specializzazione nel campo dei grandi classici viennesi (Kempff), cercare una ideale sintesi tra i lati migliori della tradizione e della tecnica ottocentesca e l’approccio innovativo della musicologia dei tempi nuovi (Arrau, Serkin).
Bolet, ancor più di Cherkassky, era in un certo senso rimasto fermamente attaccato a quelli che erano i suoi modelli, non aveva avuto la forza (o la capacità) di uscire da un pur dorato palazzo nel quale gli elementi più appariscenti dell’arredamento erano i ricordi di un tempo passato. La realizzazione della stessa impresa affidata a Bolet dalla Decca negli anni 80, quella di incidere una notevole parte del repertorio lisztiano, è sufficientemente esplicativa per capire quanto il pianista avesse tentato di modificare una tradizione che aveva puntato esclusivamente sul virtuosismo in vista di una lettura più attenta alla musica in sé, senza però possedere la visione di un Arrau, che al virtuosismo non rinunciava ma ne riviveva l’aspetto più intimo - anche nel gesto concertistico - sotto altre prospettive. Ascoltare e vedere Arrau e Bolet suonare negli anni Ottanta una stessa composizione del repertorio lisztiano (la Dante-Sonata) era molto istruttivo, proprio perché, a parità di analisi del testo e di integrità dell’esecuzione (esemplari), il primo storicizzava il mito del pianoforte romantico senza dimenticare né la potenza evocativa del testo né il ricordo degli elementi positivi di tutta una tradizione interpretativa del passato, mentre il secondo si limitava a un lavoro di pulizia di quelli che si credevano essere elementi superflui, incrostazioni dovute al trascorrere del tempo (ossia alla pratica concertistica), giungendo però a rimuovere nel restauro anche gran parte delle emozioni originali associate al testo stesso.
Ancor prima del recupero americano di Bolet attraverso il già ricordato recital del 1974, la Rias di Berlino aveva commissionato al pianista una serie di registrazioni molto interessanti. Interessanti anche perché (siamo nei primi anni Sessanta) il tipo di repertorio presentato nel nostro album era praticamente assente sia dalla discografia sia dai programmi concertistici. Gli Studi trascendentali di Liszt erano stati poco prima incisi da un virtuoso d.o.c. come Cziffra, e in Russia da Berman, ma rare erano le esecuzioni dal vivo, e mai integrali. I nomi di Godowsky e di Moszkowski erano del tutto fuori moda o, nel secondo caso, al massimo evocati da qualche straordinario bis di Horowitz. L’incisione radiofonica di parte degli Studi lisztiani non è stilisticamente lontana da quella integrale che verrà compiuta da Bolet per la Decca nel 1985 e i tre pezzi di Godowsky e Moszkowski verranno ripetuti piuttosto raramente negli anni 70 e 80. In entrambi i casi la lettura di Bolet punta innanzitutto a una pulizia assoluta di suono e a un rigore stilistico perfino eccessivo a scapito di una immediatezza virtuosistica che spesso costituisce il lato forse più appariscente ma anche più stimolante di questo tipo di repertorio. Il primo Studio di Liszt, quello che eseguito da Berman sembra davvero scuotere la tastiera come se un uragano si fosse abbattuto sul pianoforte, è a confronto più una naturale estensione di qualche esempio dell’op. 740 di Czerny, il musicista che di Liszt era stato peraltro il più importante insegnante. Non parliamo poi del secondo studio, che viene affrontato a una velocità risibile rispetto a quella impiegata dai maggiori virtuosi del Novecento, o dell’ottavo, dove la scelta di metronomo più regolare non cancella l’impressione di una mancanza di brio, di inquietudine che vengono sostituiti da una pur chiarissima dizione del particolare. Le qualità di suono e di analisi sono molto meglio percepibili negli studi n. 9 e 11, ma in genere il Liszt di Bolet è tutto fuorché diabolico, inquietante, “strepitoso” per utilizzare un termine favorito dallo stesso compositore. È il Liszt riveduto e corretto dallo stesso musicista negli anni Cinquanta dell’Ottocento, ma senza il minimo ricordo del virtuosismo estremo degli anni giovanili. Della difficile parafrasi di Godowsky sul Pipistrello si ammira la resa chiarissima del complicato sovrapporsi delle voci, e qui Bolet è interprete ideale perché punta alla realizzazione perfetta delle premesse teoriche dell’arrangiatore. L’eleganza suprema è alla base della lettura della antiquata ma deliziosa Valse di Moszkowski, mentre la pur bellissima esecuzione del Cigno non attinge alla medesima tavolozza coloristica esibita da Cherkassky.