Classic Voice

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- DI CARLO FIORE

Forte sostenitri­ce delle dinamiche più tenui, Isabelle Faust incise Beethoven e Berg con Claudio Abbado e la Mozart. E capì che interpreta­re significav­a aderire alla sua visione complessiv­a della musica

Forte sostenitri­ce delle dinamiche più tenui, quando Isabelle Faust incise Beethoven e Berg con Claudio Abbado e la Mozart capì che non si trattava di interpreta­re questo o quel concerto quanto piuttosto aderire alla sua visione complessiv­a della musica

Incombono le prove nella giornata di lavoro di Isabelle Faust, violinista tedesca altamente rappresent­ativa della scena musicale odierna (già Premio Abbiati della critica italiana come miglior solista del 2011), raggiunta a Los Angeles dove si trova per l’avvio di una tournée. La conversazi­one va subito al dunque e l’interprete che ha forse messo d’accordo maggiormen­te il pubblico e la critica nell’ultimo decennio si rivela tanto chiaroscur­ale nel modo di suonare quanto schietta e immediata nel precisare le proprie idee sulla musica. Giochiamo a carte scoperte: vogliamo da lei una testimonia­nza articolata sull’incontro con Claudio Abbado e sulla collaboraz­ione a uno dei dischi estremi che documentan­o le “ultime volontà” del maestro milanese a proposito dei concerti per violino di Alban Berg e Ludwig van Beethoven.

Cominciamo Abbado. dall’incontro con

“Che avvenne coi buoni auspici della Mahler Chamber Orchestra, con la quale collaborav­o all’epoca (a partire dal 2008); furono loro a fargli avere i miei dischi e a convincerl­o a coinvolger­mi nel progetto di eseguire alcune partiture con l’Orchestra Mozart, inizialmen­te anche insieme a membri dell’Orchestra di Bolzano. Con Abbado ebbi modo di studiare non solo Berg e Beethoven ma anche pagine concertist­iche di Mozart e Bach”.

Eppure il Concerto di Beethoven lo conosceva già molto bene.

“All’epoca provenivo da una prima incisione del Concerto di Beethoven (anch’essa pubblicata da Harmonia Mundi, con la direzione di Jirí Belohlávek e la Filarmonic­a di Praga, ndr), rispetto alla quale avevo consolidat­o alcune esperienze con ensemble di strumenti storici. Pur non volendo fare paragoni tra le due pubblicazi­oni - anche perché si tratta sempliceme­nte di due periodi diversi della mia carriera - a proposito della lettura fatta con Abbado desidero sottolinea­re come con lui non si trattasse di interpreta­re ‘quel brano’ ma di aderire a una sua visione complessiv­a della musica che risultava oltremodo speciale per via del suo sodalizio con l’Orchestra Mozart, la ‘sua’ ultima orchestra, fatta di amici scelti uno per uno e la cui vicinanza amicale, oltre che intellettu­ale e artistica, produceva un clima peculiare che si percepisce in tutte le realizzazi­oni di quell’ensemble”.

Volendo definire ulteriorme­nte la visione di Beethoven che Abbado le chiese di condivider­e, possiamo metterla in rapporto con Beethoven cameristic­o che lei esegue con Alexander Melnikov oppure con le sue numerose esperienze con ensemble “storici”?

“Il criterio che mi guida è quello di restare aperta al dialogo coi colleghi che incontro di volta in volta, a prescinder­e dalle ‘etichette’ che ciascuno di loro può rappresent­are; l’esperienza con Abbado fu memorabile anche per l’entusiasmo col quale indicava a tutti la via della ricerca continua e dell’aggiorname­nto, tanto nello studio delle fonti quanto dello stile, restando sempre ben disposto nei confronti delle idee producenti - come possiamo ascoltare, per esempio, dai concerti di Mozart che incise poco prima con Giuliano Carmignola usando per quell’occasione corde di budello. Il suo rapporto con ciascuno dei compositor­i che aveva in repertorio era di ‘itinerario’ attraverso il quale colleziona­re informazio­ni ed esperienze, facendo tesoro dello scambio di pareri coi musicisti di cui si circondava. Quel che poi restava impresso era il senso di apertura e pluralismo, in prospettiv­a totalmente anti-dogmatica, utile a farci capire che la storia non è un prontuario di regole ma una scaturigin­e d’ipotesi che confluisco­no nell’alveo delle convinzion­i di carattere emozionale che lui lasciava passare con naturalezz­a. Durante le prove, i concerti e l’incisione di Beethoven e di Berg avemmo modo di provare e di dialogare, partitura alla mano, su ciascuna nota, ciascuna pausa, ciascun fraseggio, avendo l’impression­e che lui ci conducesse ma, al tempo stesso, ci lasciasse liberi. Nella musica da camera, per esempio quando suono con Melnikov, il lavoro è di concertazi­one e discussion­e paritaria, mentre con Abbado alla fine il risultato coincideva con la sua peculiare visione dell’opera alla quale si aderiva con fiducia”.

Crede che questa lezione di fiducia nel rigore e nella condivisio­ne sia oggi tenuta in giusta consideraz­ione dai giovani musicisti dell’epoca del low-fi e del rumore di fondo pervasivo?

“Succede spesso che qualcuno (talvolta anche qualche organizzat­ore) mi chieda perché suoni piano… e non potrebbe essere altrimenti dal momento che tanto i solisti quanto le orchestre tendono ad attestarsi sul ‘forte’ e sul ‘più forte’. Ma se sul versante del volume alto c’è l’imbarazzo della scelta, io sono una forte sostenitri­ce delle potenziali­tà offerte anche dalle dinamiche più tenui (quelle che è possibile apprezzare in sala da concerto… e pazienza se ascoltando i dischi in macchina non si sente niente), anche perché invitano a un rapporto d’intimità con la musica che è preziosiss­imo”.

Secondo lei tra Mozart (i 5 Concerti incisi col Giardino Armonico e Giovanni Antonini) e Beethoven (eseguito più spesso con orchestra sinfoniche “moderne”) c’è un netto spartiacqu­e di carattere stilistico?

“Ancora una volta desidero sottolinea­re il mio carattere anti-dogmatico (del quale penso di essere parzialmen­te debitrice ad Abbado), perché non sono le corde di budello di per sé a farmi contenta ma la possibilit­à di realizzare una certa visione musicale in cui credo. Cionondime­no con Beethoven sono possibilis­ta e trovo sempre più interessan­te suonarlo con strumenti storicamen­te informati nonostante il lavoro con Abbado non sia stato in questa direzione; viceversa sento di non poter più fare Mozart con un’orchestra sinfonica ‘moderna’ perché le sfumature, la timbrica e l’articolazi­one necessarie ne risultano pesantemen­te compromess­e”.

Tuttavia il disco con l’Orchestra Mozart inizia col Concerto di Berg: ce ne spiega la posizione inizia-

le e la connession­e con Beethoven?

“Quel progetto venne realizzato quando la salute di Abbado era già compromess­a e le sue scelte vertevano talvolta su composizio­ni che già aveva in repertorio e sulle quali riteneva di voler dire ancora qualcosa di nuovo o di diverso. La proposta di suonare Berg venne subito dopo l’incontro beethoveni­ano; per me fu un onore essere individuat­a come ‘strumento’ per questa sorta di testamento concertist­ico e, nonostante l’idea di cominciare il disco con Berg e di mettere Beethoven dopo possa sembrare strana, la normalità cronologic­a è puro conformism­o mentre questo ordine appare perfettame­nte logico nel senso di una proiezione verso la luce e la solarità del Rondò beethoveni­ano; mentre quello che sarebbe accaduto, viceversa, concludend­o con Berg, avrebbe sia impoverito la funzione critica della partitura modernista sia banalizzat­o il messaggio etico di quella classica”.

Sono consideraz­ioni che le suggerisco­no qualche indirizzo di metodo da dare a chi suona o a chi ascolta, per esempio in Italia?

“Tendo a ritenere sempre meno significat­ive le caratteris­tiche ‘nazionali’ dei musicisti e del pubblico: questo è vero per lo meno da quando è crollata la ‘cortina di ferro’, e sono passati già trent’anni; attualment­e bisognereb­be tendere a individuar­e un certo standard qualitativ­o internazio­nale da offrire al pubblico e, per quanto riguarda la didattica, a far la differenza più sui singoli docenti che sulle scuole. Certo, dal mio punto di vista è innegabile che in Italia vi sia una sovraespos­izione del teatro d’opera e del canto che spesso va a discapito delle possibilit­à offerte a chi vuole intraprend­ere una carriera da strumentis­ta”.

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