HINDEMITH CARDILLAC
INTERPRETI M. Gantner, G.B. Barkmin, F. von Bothmer, J. Chum, J. Larmore
DIRETTORE Fabio Luisi
REGIA Valerio Binasco
TEATRO del Maggio
★★★
“Eppure quegli incessanti meccanismi sonori non sembravano del tutto messi a fuoco. All’ascolto non risultavano abbastanza abrasivi. Luisi sceglie la tinta anticata”
Il Maggio torna a fare Il Maggio. Il festival che intriga e scuote dalla routine. E che offre spunti nuovi, illuminando angoli bui e poco frequentati: somministrando risarcimenti artistici. È accaduto per Cardillac di Hindemith, che ha inaugurato l’edizione ancora in corso. Se tutto il suo teatro meriterebbe di circolare di più, per questo titolo si può a ragione autorizzare l’abusata definizione di capolavoro. Lo sa bene Fabio Luisi, che lo ha diretto all’Opera di Zurigo, inciso su cd, e ora voluto a porre il sigillo sul suo primo festival fiorentino da direttore musicale. Oltre che capitale di per sé, è lavoro cruciale per il percorso artistico (non solo) di Hindemith. Sulla cui partitura restano le tracce di un avvicendamento estetico: il soggetto, tratto da E.T.A. Hoffmann, sulle ossessioni di un orafo (“un artista” per la Parigi del Seicento dove lo colloca lo scrittore tedesco) che non vuole separarsi dalle sue creazioni al punto da ucciderne gli acquirenti, è intinto nel nero inchiostro dell’espressionismo, di cui Hindemith è stato un campione negli anni della Repubblica di Weimar; nella partitura, al contrario, insorge quella nuova attitudine oggettiva, tipica dei suoi anni trenta: un florilegio di pezzi concertanti neobarocchi che rivela subito la sua natura di ingranaggio ossessivo, angoloso, fitto di contrappunti da - giusta la definizione d’autore - “Bach del Novecento”. Una discrasia che ne fa un capo d’opera unico, e che va rispettata. Luisi conduce gli strumentisti del Maggio a una risoluzione perfetta di questi meccanismi avviluppati e apparentemente impassibili che impegnano legni e ottoni solisti come strumentini di un concerto grosso. Eppure quella “oggettivata asciuttezza”, quel “contrappunto lineare dai profili netti e spigolosi, anche aspri, animati da forte energia ritmica e talvolta dal vorticare di incessanti meccanismi sonori” di cui parla a ragione Paolo Petazzi non sembravano del tutto messi a fuoco. All’ascolto non risultavano abbastanza abrasivi. Luisi, che pure è maestro di tensioni nitide, di scatenamenti orchestrali lucidamente perentori, sceglie la corda ludica, la nostalgia anticata. Forse per non coprire le voci ottime e gentili dei protagonisti (che il nuovo teatro del Maggio, col palcoscenico così ampio e arretrato, non aiuta): è il caso del protagonista, Martin Gantner, un finissimo dicitore e interprete a tutto tondo, a cui mancava forse lo spessore espressivo, il peso tragico che si fa grana vocale. Un “quid” che solo la figlia dell’orafo, Gun-Brit Barkmin, mostra di possedere, laddove gli involi tenorili dello spasimante Ufficiale, Ferdinand von Bothmer, sono di bellezza fragile, da non coprire, così come i cammei di Cavaliere e Dama (Johannes Chum e Jennifer Larmore) che nell’antefatto soccombono al primo, efferato, omicidio estetico. Ombre nere e inquietanti che la regia di Valerio Binasco riduce a narrazione noir o “pulp”: senza cogliere l’inquietante sprofondo dell’ossessionata, straniata, perversione d’artista. La dimensione realistica, cittadina, sociale - popolata da una fauna da cabaret berlinese - funziona per il quadro della persecuzione di Cardillac, empatico antieroe pestato a morte dalla folla inferocita, ma per il resto disturba le ragioni più profonde e intime del dramma