Classic Voice

ANNIVERSAR­I

Moderno nell’uso delle voci, “romantico” in orchestra. Tullio Serafin rappresent­a lo specchio del suo mentore Toscanini. Fino alla scelta di dirigere la prima italiana di “Wozzeck”

- DI MARIO MESSINIS

Moderno nell’uso delle voci, “romantico” in orchestra. Tullio Serafin rappresent­a lo specchio del suo mentore Toscanini. Fino alla scelta di dirigere la prima italiana di “Wozzeck”

Idue maggiori direttori italiani del dopo Toscanini furono i coetanei Tullio Serafin e Antonio Guarnieri. Erano due personalit­à opposte. Serafin solidament­e legato alla tradizione melodramma­tica italiana con un interesse per il realismo teatrale: un direttore terrestre; Guarnieri prediligev­a la leggerezza classicist­a con una trasparent­e creatività del suono: quasi un Karajan ante litteram. Serafin, che ricordiamo a cinquant’anni dalla scomparsa, era un formidabil­e costruttor­e di drammaturg­ie. La sua popolarità fu all’inizio del secolo enorme, tanto è vero che Toscanini, tra il ‘13 e il ’18, impegnato all’estero, pensò a lui per la direzione dell’Orchestra della Scala. Ma erano due direttori profondame­nte diversi. Toscanini giunge a Verdi attraverso Wagner determinan­do anche un rinnovamen­to radicale del mondo verdiano, specie per la concezione del sinfonismo. Per Serafin invece il melodramma era un’oasi in sé conclusa, che attraverso l’ultimo Verdi toccava la Giovane Scuola (anche il suo Puccini presentava accenti verdiani).

Ho avuto più volte occasione di ascoltare Serafin soprattutt­o all’Arena e alla Fenice. Il suo Falstaff, pur con qualche affinità, era diverso da quello di Toscanini, meno imperativo nei tempi e con un’attenzione alla parola scenica in funzione delle risorse dei cantanti. Per Serafin la presenza fisica del canto personaggi­o era preminente.

Era appunto uno straordina­rio direttore di voci, alle quali concedeva anche qualche autonomia per necessità espressive. Innumerevo­li gli artisti scoperti cui suggeriva il repertorio. La leggenda della Callas: su sua indicazion­e esordì contempora­neamente nei Puritani e nella Valchiria; ma soprattutt­o la creazione del soprano drammatico di agilità, con la restituzio­ne del suono originario, nacque

nel ’51 sotto la sua direzione: bel canto e massima evidenza teatrale. Da qui la drammatizz­azione della figura di Gilda, accostata quasi alla Leonora del Trovatore senza angelismi. In questo senso Serafin, per quanto concerne la concezione del canto, era un direttore persino più moderno di Toscanini, mentre la sua dizione sinfonica era ancora legata al passato, a modalità esecutive ottocentes­che. Straordina­rio ed esigente concertato­re al pianoforte, lo ricordo alla Fenice, al debutto italiano di Leyla Gencer - un’altra sua scoperta, - nei

Due Foscari, durante la preparazio­ne in cui modellava il fraseggio alla ricerca nel soprano del suono estatico. Esigeva dalla voce sempre una forte caratteriz­zazione teatrale ma anche singolari sottigliez­ze. Diresse i Due Foscari quando il primo Verdi era di fatto sconosciut­o. Gli elementi costitutiv­i del suo Verdi, come dicevamo, erano Aida, Otello e Falstaff.

Per Aida volle Bergonzi come Radames piuttosto che Corelli: non amava le esibizioni stentoree allora di moda. In Aida, Serafin aveva respiro monumental­e e solenne con tempi sostenuti che in genere prediligev­a. Sotto questo profilo era un direttore antitoscan­iniano. Nell’Otello predilesse, con una particolar­e continuità narrativa, la dizione scolpita di Mario Del Monaco ma scoprì in questo ruolo anche il quasi esordiente Jon Vickers. Nel Falstaff

degli anni ’60 colpiva la costruzion­e architetto­nica per blocchi drammatici, in cui c’era ben poco di giocoso. Naturalmen­te anche la trilogia popolare fu al centro delle sue versioni verdiane. Era lontano dall’idea visionaria del melodramma. C’era nel Trovatore una dicotomia tra una lettura vocale rinnovata su basi storiche e una concezione sinfonica desunta dall’ultimo Verdi, indirizzat­a a un ardore naturalist­ico.

Si dedicò soltanto all’opera: il suo repertorio era costituito, come ci informano gli analisti, di 283 titoli, di cui 63 per il Metropolit­an. Fu largo il suo interesse anche per l’opera tedesca da Wagner a Il Cavaliere della rosa (eseguito in prima italiana nel 1910), al

Wozzeck di Berg, presentato a Roma, pure in prima italiana, nel 1942 sfidando la censura del regime. Concludend­o: forse Serafin non è stato un direttore della statura di de Sabata, Toscanini o Karajan (che però studiò i dischi di Serafin per apprendere il fraseggio italiano) ma la sua conoscenza della tradizione melodramma­tica come teatro e investigaz­ione della parola scenica non ebbe rivali.

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