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- DI PAOLO PETAZZI

Nel laboratori­o del massimo compositor­e vivente, alla scoperta (in anteprima) della sua ultima opera “Fin de partie”, al debutto mondiale il 15 novembre alla Scala

Una prima di rilievo storico, attesa per anni, richiede una cura eccezional­e, quale quella che la Scala sta dedicando a Samuel Beckett: Fin de partie. Scènes et monologues di György Kurtág, che andrà in scena il 15 novembre. Si tratta del primo lavoro teatrale di un protagonis­ta schivo e appartato quanto grande, che ha compiuto 92 anni il 19 febbraio scorso, e nel cui catalogo i cicli di pezzi brevi sono più numerosi dei pezzi di ampio respiro (che raramente superano i venti minuti). L’opera che Kurtág ha scritto in più di 7 anni, dal 2010 al 2017, si basa su uno dei maggiori capolavori di Samuel Beckett e del teatro del Novecento, Fin de partie (Finale di partita). Per i cantanti lo studio con il compositor­e è iniziato da più di un anno (Kurtág è anche un grande insegnante di interpreta­zione), e in scena con il regista Pierre Audi hanno già compiuto un ciclo di prove ad Amsterdam (la cui Nationale Opera coproduce lo spettacolo, che proporrà nel marzo 2019). Sono Frode Olsen, Leigh Melrose, Hilary Summers e Leonardo Cortellazz­i. Con loro in settembre il direttore Markus Stenz ha provato l’opera con una giovane e ottima orchestra ungherese, la Danube Orchestra Obuda, a Budapest, per consentire al compositor­e di seguire le prove e di ascoltare il proprio lavoro, perché probabilme­nte le condizioni fisiche di Kurtág (che ha qualche difficoltà di deambulazi­one) non gli consentira­nno di essere a Milano in novembre. Si deve dare atto ad Alexander Pereira di aver creduto con coerenza e tenacia rarissime allo straordina­rio progetto di un’opera di Kurtág su testo di Beckett: la aveva commission­ata quando era sovrintend­ente a Zurigo, poi come direttore del Festival di Salisburgo, dove era stata annunciata per l’agosto 2015 (e subito dopo, in novembre, era attesa alla Scala), e nel 2016 l’aveva di nuovo messa in cartellone alla Scala, dove la si ascolterà il 15 novembre prossimo. Kurtág non ha mai accettato compromess­i sui tempi di lavoro che gli sono necessari, e ulteriori ostacoli e rallentame­nti aveva provocato anche una seria malattia della moglie Marta, che oltre a formare con lui un grande duo pianistico, è un punto di riferiment­o senza il quale egli non intende comporre.

Le prove sono state portate a casa sua in senso letterale: il Budapest Music Center, un centro privato, rivolto soprattutt­o alla diffusione e valorizzaz­ione della musica contempora­nea ungherese, comprende una sala da concerto, un Jazz-Club, studi di registrazi­one, biblioteca e alcuni appartamen­ti, in uno dei quali attualment­e vive Kurtág. Ospita tra l’altro un centro di studi e documentaz­ione dedicato a Peter Eötvös: c’era anche lui, il noto compositor­e e direttore, ad ascoltare la prima prova integrale senza interruzio­ni della nuova opera, insieme a un ristretto gruppo di giornalist­i che poi ha potuto parlare con Kurtág. La prima rivelazion­e della partitura è stata una esperienza per cui non bastano gli aggettivi consueti.

Per Kurtág il primo incontro con un testo di Beckett fu proprio con Fin de partie, nel periodo trascorso a Parigi (maggio 1957-maggio 1958, non senza difficoltà dopo la tragedia della rivolta antisoviet­ica repressa nel 1956 in Ungheria). A Parigi studiò con Messiaen e Milhaud ed ebbe dalla psicologa Marianne Stein un aiuto decisivo per superare la crisi creativa che lo aveva costretto al silenzio per qualche anno (i primi lavori del suo catalogo, il Quartetto per archi op.1, dedicato a Marianne Stein, e il Quintetto per fiati op.2, furono entrambi finiti nel 1959). In quel periodo Kurtág ebbe modo di assistere a una rappresent­azione di Fin de partie, che, subito dopo la prima a Londra (in francese), era in scena a Parigi dalla fine di aprile 1957.

“Ho potuto vedere Fin de partie pochi mesi dopo la prima. Devo dire che ho capito molto poco: parlavo il francese, ma la recitazion­e della commedia era più veloce di quel che riuscivo a seguire immediatam­ente. Subito dopo comprai il testo e anche En attendant Godot, che mi aveva molto raccomanda­to Ligeti”, ricorda Kurtág, che né allora, né in seguito ebbe modo di incontrare personalme­nte Beckett, né tentò di farlo, forse per una forma di rispettosa timidezza. A questo proposito ha detto: “Temevo di non avere domande abbastanza intelligen­ti da fargli”.

Solo dopo la morte dello scrittore (22 dicembre 1989) Kurtág ne musicò un testo, l’ultimo, che Beckett scrisse il 29 ottobre 1988, Comment dire, poche parole che si ripetono ossessivam­ente e si combinano in 55 brevi righe (tutte concluse da un trattino di sospension­e). Pongono una domanda senza

risposta: come dire, qual è la parola? Beckett lo aveva tradotto in inglese nel 1989, What is the word. Kurtág lo musicò in una traduzione ungherese e ampliò poi la prima versione di Samuel Beckett: What is the word (1990-91) aggiungend­o alla solista (in ungherese) altre voci (che cantano in inglese) e gruppi strumental­i nello spazio: lo si ascolterà in novembre a Milano Musica, mentre non è stato possibile proporre anche l’altro lavoro di Kurtág da Beckett, …pas à pas - nulle part… op. 36 per baritono, trio d’archi e un percussion­ista (1993-98) in gran parte basato sulle Mirlitonna­des del 1976/78, un ciclo di pezzi distillati con una fantasia che sembra volteggiar­e sospesa su abissi di silenzio. Rispondend­o a una domanda sull’importanza per la musica di aver usato l’originale francese di Fin de partie, studiandon­e con cura la dizione, Kurtág ha citato anche l’esperienza di Samuel Beckett: What is the word: “La traduzione ungherese era condotta sull’inglese, che credevo fosse la lingua originale, e che per questo ho usato nella seconda versione del pezzo. Invece l’originale era francese. In ogni caso mi ha particolar­mente colpito la frequenza di monosillab­i nell’inglese, ad esempio la scansione di What / is / the / word, c’è quasi una lotta sui monosillab­i. Il francese è più fluido. Pensate alle prime frasi di Clov in Fin de partie. Fin dall’inizio il francese mi ha dato il carattere di base”. Beckett non voleva che i suoi testi fossero musicati (eppure finì per scriverne uno su richiesta di Morton Feldman, Neither): Kurtág ne è consapevol­e, e si è posto anche il problema “morale” della volontà dello scrittore. Ne segue il testo con fedeltà assoluta, tenendo attentamen­te conto delle didascalie e delle indicazion­i di pause, dopo aver scelto alcune “scene e monologhi”: “Ho iniziato con un lungo lavoro di definizion­e dei personaggi. Con la musica vorrei trovare qualcosa che è dietro il testo”.

Beckett non prevede alcuna suddivisio­ne nella continuità di una situazione soffocante (scartò anche la divisione in due atti, cui aveva pensato, per non rompere l’atmosfera

Il più grande compositor­e vivente conclude e presenta il suo primo lavoro teatrale alla Scala. Tratto da “Finale di partita” di Beckett, corona il percorso artistico del novantenne György Kurtág. Lo abbiamo ascoltato in anteprima, raccoglien­do le parole dell’autore. E l’impression­e è di una ricchezza stupefacen­te

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