INTERVISTA
Dal 2021 guiderà la Royal Philharmonic Orchestra. Conosciamo meglio Vasily Petrenko, che ha conquistato l’Inghilterra partendo da Leningrado
Il Petrenko d’Inghilterra ha completato l’incisione delle Sinfonie di Scriabin, “molto più europeo di quanto sembri”. Dal 2021 guiderà la Royal Philharmonic Orchestra. E a Liverpool, dove vive e dirige dal 2005, in attesa della Brexit educa con la musica i bambini delle periferie
Aosservarne l’aspetto placido, diluito su quasi due metri d’altezza, Vasily Petrenko non sembra il carattere che si farebbe sedurre dalle visioni apocalittiche scriabiniane. Eppure proprio a Scriabin ha dedicato l’ultimo cd insieme alla sua Oslo Philharmonic Orchestra, in uscita in queste settimane per la norvegese Lawo Classics, con la Prima Sinfonia e la cosiddetta Quinta, ovvero il “Prometeo, Poema del Fuoco”, uno dei momenti sinfonici più visionari della storia della musica occidentale. Il disco completa l’integrale sinfonica del compositore russo, di cui “Classic Voice” pubblica la sinfonia n. 3 e 4, il “Poema dell’estasi”. Petrenko, che vive su una ventosa penisola di fronte a Liverpool, dove da tredici anni ha contribuito a rilanciare internazionalmente il rango della Royal Liverpool Philharmonic Orchestra, sta combattendo in Inghilterra una battaglia simile a quella del Sistema di José Antonio Abreu: strappare bambini di cinque-sei anni al degrado delle periferie per farne potenziali orchestrali del futuro. Magari proprio nella sua European Union Youth Orchestra, la compagine patrocinata dall’Unione Europea, di cui è direttore principale, che entro marzo dovrà staccarsi irrevocabilmente da Londra per effetto della Brexit. Ma anche su questo Petrenko non starà a guardare. In fondo, l’Inghilterra è diventata il suo regno. E l’incoronazione ufficiale avverrà dalla stagione 2021-22 quando, lasciate prima Oslo e poi Liverpool, prenderà l’incarico di direttore musicale alla Royal Philharmonic Orchestra a Londra. Come dire: se Kirill (nessuna parentela, neanche alla lontana) regna su Berlino, oltre Manica comincia l’Impero di un Petrenko certo più loquace del collega, ma non meno ambizioso.
Quali sono le sue origini? Cosa ha ascoltato il ragazzo Vasily nella Leningrado anni Ottanta per diventare poi un dominus del Nord Europa, con incursioni sinfoniche integrali e onnivore (vedi i progetti discografici sui poemi straussiani, le Sinfonie di Prokofiev, i balletti di Stravinskij, Elgar e Rimskij-Korsakov)? “Devo premettere - risponde - che sono stato molto fortunato a nascere nel 1976 a San Pietroburgo. Significa che sin da ragazzino ho potuto ascoltare tanti direttori stranieri in una volta sola, cosa impossibile fino a poco tempo prima. Quelli di una generazione precedente, invece, non hanno avuto lo stesso privilegio”.
Non che dalla Russia non abbia avuto buoni esempi.
“Certamente. Uno che mi ha lasciato una traccia profondissima fu Evgenj Mravinskij. Era il 1983, uno dei miei primissimi concerti dal vivo e uno dei suoi ultimi. Ricordo le impressioni della sua Incompiuta e un Bruckner che ad esser sinceri mi spaventò. Ma del resto per un bambino di sette anni Bruckner è ancora inavvicinabile”.
In età più cosciente chi l’ha impressionata?
“Georg Solti; e Leonard Bernstein nella prima visita della New York Philharmonic a San Pietroburgo. Ricordo la gioia che trasmetteva ai musicisti. Fu il primo caso in cui vidi le persone felici in un concerto”.
Dovendo indicare un paio di figure fondamentali?
“Penso che la forza di un direttore d’orchestra sia quella di prendere un po’ da tutti, ma di non essere influenzato da uno solo. Di Gergiev ho ammirato il temperamento e l’energia titanica; di Termirkanov il fraseggio degli archi e il rispetto che dà a tutti i musicisti; di Salonen la pulizia e il saper semplificare il testo, cosa che in Mahler risulta utilissima, sia per chi suona, sia per chi ascolta. Sappiamo tutti che spesso i direttori tendono a complicare le cose...”.
Lo dice anche perché da tre anni forma i ragazzi della European Union Youth Orchestra?
“A dir la verità in Inghilterra me la vedo anche con ragazzi molto più giovani. Dal 2009 nelle scuole elementari di Liverpool, in certe zone periferiche particolarmente svantaggiate o a rischio degrado, abbiamo varato un programma di educazione musicale. A tutti i bambini dai cinque anni in su diamo uno strumento con lo scopo di formare una loro piccola orchestra. E sullo crescita sovrintendono sia i maestri elementari sia i musicisti dell’orchestra di Liverpool. A fine anno c’è un concerto, diretto da uno dei bambini”.
Quali effetti ha ottenuto?
“Stimiamo che nelle aree in cui abbiamo attuato questo programma musicale ci sia stata un’incidenza criminale minore di un terzo, rispetto agli anni precedenti. E siccome è già passato un po’ di tempo, ormai alcuni di loro potrebbero esser già pronti per la Euyo”.
Se convincerà l’Unione Europea ad accettare musicisti inglesi.
“Ci stiamo lavorando. So che non sarà facile. Anche Claudio Abbado non riuscì a far ammettere musicisti dall’Est Europa, e per questo fondò la Gustav Mahler Jugendorchester, per unire Est e Ovest. Di sicuro so che spenderemo molto tempo in Italia, nella residenza di Ferrara. Ma ovviamente non è importante dove saranno gli uffici. A me preme che un’orchestra come questa non sia limitata da questioni di confine. Se c’è un mestiere internazionale, senza barriere, è proprio quello del musicista”.
Ci racconta la sua esperienza scriabiniana? È piuttosto inconsueto, di questi tempi, affrontare l’integrale sinfonica.
“La parabola di Scriabin, pur in una vita così breve, è affascinante. Comincia a scrivere la sua Sinfonia n. 1 come fosse una Settima di Ciaikovskij, ma con due modelli ben chiari:
Wagner da una parte, per certe soluzioni armoniche, e Beethoven dall’altra, per la scelta del coro finale. Ma se nella Nona c’è un Inno alla gioia, qui è un Inno all’arte, che salverà il mondo. Quasi una citazione dostoevskiana”.
E cosa succede da questo manifesto artistico alla Quinta, il “Poema del fuoco”?
“Nel Prometeo si arriva alla sintesi finale dello Scriabin ‘multimediale’, appena un passo prima dell’opera incompiuta che avrebbe voluto allestire alle pendici dell’Himalaya, con diecimila artisti di ogni estrazione, pittori, danzatori, attori, una grandiosa sintesi religiosa di tutte le arti, che avrebbe portato a un nuovo ordine mondiale. Muore però nel 1915, in piena Prima Guerra Mondiale e due anni prima della Rivoluzione Russa. Aveva visto molte cose prima degli altri”.
In alcuni scritti Scriabin non impone di leggere alla lettera i suoi testi, facendo così decadere l’ipotesi che si tratti di musica a programma.
“Nemmeno in partitura è così categorico. Nel Prometeo lascia decidere spesso l’uso dei colori abbinati alla tastiera. E le sue indicazioni per l’interprete sono le più varie: brumoso, voluttuoso, misterioso, limpido, sordo, vittorioso, sublime, estatico, folgorante, danzante, vertiginoso. Come vedete, in Scriabin c’è molta più libertà che in qualunque altro autore”.
Si può considerare solamente russo un autore così fuori dai confini?
“Più che russo, europeo. Ma non solo perché spese molto tempo in Svizzera e in Francia. Credo che ci sia ancora molto da scoprire, oltre la cortina esoterica in cui è relegato. Fin qui abbiamo esplorato quello che lui ha proiettato fuori di sé. Ma è nel suo mondo interiore che bisogna andare a scavare ancora”.