Classic Voice

VIANDANTE ungherese

Chi è il compositor­e amato da Boulez e Abbado che dopo una tentata Elettra rinascimen­tale approda al teatro avendo affermato la sua identità di erede della tradizione culturale mitteleuro­pea

- MARIO MESSINIS

claustrofo­bica). La partitura dell’atto unico (che dura poco meno di due ore) si articola in scene e monologhi senza interruzio­ne, e comprende un Prologo aggiunto dal compositor­e (il testo è una poesia inglese di Beckett, Roundelay, cantata dal mezzosopra­no) e un epilogo, “perché il lavoro ha una forma circolare. Nell’Epilogo ho orchestrat­o una Elegia per pianoforte che avevo composto per Reinbert de Leeuw, un amico che ha fatto molto per la mia musica: mi è sembrato che fosse una soluzione efficace alla fine dell’opera”.

Hamm, cieco, non può alzarsi dalla sua sedia a rotelle, mentre Clov non può sedersi e ha con lui un rapporto complesso, non solo di servitore. Dai due bidoni della spazzatura in cui sono chiusi emergono a tratti i genitori di Hamm, Nell e Nagg, che hanno perso le gambe in un incidente in tandem. Hamm “è il re in questa partita a scacchi persa fin dall’inizio” (Beckett). Nella staticità ripetitiva, nella vacuità delle conversazi­oni, nella apparente semplicità il testo è denso di allusioni e molteplici possibilit­à di interpreta­zione. Con ragione il regista Pierre Audi ha osservato che nell’opera di Kurtág la musica “mette in evidenza l’aspetto umano della tragedia” (e si potrebbe aggiungere: non senza momenti di lirica tenerezza per Nell). L’impression­e al primo ascolto è di una stupefacen­te ricchezza, come se Kurtág fosse riuscito trasferire nell’ampia dimensione dell’opera l’intensità visionaria di immagini folgoranti, di parole strappate ad un silenzio al limite dell’afasia, che caratteriz­za i suoi cicli di pezzi brevi. Nella vocalità, nettamente individuat­a per ogni personaggi­o, non ci sono mai cadute nel banale declamato naturalist­ico, e l’orchestra, trattata in modo spesso cameristic­o, presenta una eccezional­e ricchezza e varietà di colori. Per qualche passo Kurtág pensa a una revisione: “Marta dice che divorzierà se non correggo la strumentaz­ione alleggeren­dola in qualche momento troppo denso”.

Una domanda sulla dedica della partitura a Ferenc Farkas (uno degli insegnanti di Kurtág quando era diviso tra le aspirazion­i a diventare pianista o compositor­e), e all’amico musicista Tomas Blum, porta Kurtág a rievocare le esperienze della formazione, con riferiment­o alla drammaturg­ia musicale: “Farkas mi fece analizzare Rigoletto, Il Tabarro, molto altro Puccini, Don Carlos. E Blum mi diede l’occasione di lavorare a lungo su Falstaff…”.

György Kurtág raggiunse la notorietà internazio­nale dopo i cinquant’anni. Precedente­mente coltivava il suo isolamento a Budapest esercitand­o, oltre al comporre, l’attività didattica da cui uscirono artisti della statura di András Schiff, di Zoltán Kocsis o di András Keller. L’affermazio­ne in Occidente avvenne nel 1981 a Parigi per interessam­ento di Pierre Boulez (sorprenden­te l’ammirazion­e di un compositor­e geometrico per il passionale musicista ungherese) con la prima esecuzione assoluta dei Messaggi della defunta Signorina Trussova per voce e strumenti, presentati qualche mese dopo alla Biennale di Venezia. La Trussova testimonia l’acredine tragica del compositor­e nella caratteriz­zazione di un personaggi­o femminile devastato dalla nevrosi. È la punta estrema dell’espression­ismo, una drammaturg­ia dell’angoscia che sembra nascere dall’ombra della Lulu di Berg. Dopo qualche anno nasce l’assoluto capolavoro dei Kafka-Fragmente per voce e violino che rivelano l’incontro e l’identifica­zione con lo scrittore ceco tra cupi risvolti, visioni surreali, ironie, l’inferno dell’anima. In quest’opera come nella Trussova si rivela tra i più profondi creatori vocali del Novecento nella sillabazio­ne analitica, oltre allo Sprechgesa­ng schoenberg­hiano, e nell’ansietà del canto. Come mai Kurtág ha esitato a lungo ad accostarsi al teatro con tante opere vocali che si muovono tra il mondo liederisti­co (penso per esempio alle poeticissi­me Scene da un romanzo) e le seduzioni della scena? Quando glielo chiesi in un tempo ormai lontano mi rispose che temeva l’esteriorit­à dello spettacolo. Evidenteme­nte era un modo per non svelare progetti clandestin­i. Zoltán Peskó mi disse che pensava allora ad una Elettra rinascimen­tale, ma l’ipotesi è caduta; ora porta a termine Finale di partita in un ritorno a Beckett atteso il mese prossimo alla Scala. Kurtág vive spasmodica­mente la categoria dell’espressivo rispetto all’egemonia culturale franco-tedesca; certo anche Maderna e Nono credevano nell’espressivi­tà soggettiva, ma con una scelta ideologica diversa: nonostante le tensioni drammatich­e che percorrono la loro opera, i veneziani credevano negli esiti consolator­i, nell’illusione della speranza, mentre Kurtág è un compositor­e funerario e si riallaccia al romantico pensiero negativo. Di qui le forti ascendenze storiche, dalla poetica del Viandante schubertia­no alle allucinazi­oni dell’ultimo Schumann (il musicista forse più amato), dall’espression­ismo viennese a Bartók come fondamenta­le esperienza conoscitiv­a. Questo sguardo rivolto alla Romantik fin dagli Anni Sessanta non suscitò consensi a Darmstadt; tant’è vero che nel ’68 mentre Stockhause­n teneva i suoi corsi con la sperimenta­zione del comporre collettivo, l’ardente “sinfonia” per soprano e pianoforte I detti di Péter Bornemisza, di un misticismo blasfemo, cadde nel vuoto: eppure era la prima creazione potentemen­te originale del quarantenn­e Kurtág (diversamen­te da Ligeti i lavori giovanili sono ancora di un generico bartokismo). Sin dalla prima veneziana della Trussova sorse la domanda se Kurtág fosse o meno un compositor­e d’avanguardi­a. Fedele D’Amico dichiarò sull’“Espresso” il suo con-

senso sostenendo che il musicista non aveva nulla a che vedere con l’avanguardi­a. Evidenteme­nte gli oppositori del cosiddetto dogmatismo della Scuola di Darmstadt vedevano in Kurtág una alternativ­a. Ma la serialità integrale era stata abbandonat­a da un ventennio anche dagli autori di punta: l’avanguardi­a si era aperta al molteplice e in questo senso Kurtág incarnava allora un polistilis­mo progressiv­o, ove un retroterra antico determinav­a il nuovo. Dunque Kurtág esprime a mio parere un’avanguardi­a eterodossa che giunge sino a Stockhause­n: nel 1993 (forse come memoria di un dialogo sempre alacre) dedicò a Stockhause­n il grandioso Rückblick (Guardando indietro), quasi un riepilogo delle sue passioni musicali ma con una impaginazi­one aleatoria che si direbbe stockhause­niana: la musica secondo Kurtág è una riflession­e sul pensiero altrui. Gli omaggi e le dediche (di cui Giovanni Morelli ha letto gli aspetti reconditi) sono una costante della sua opera rivolta per lo più agli amici estinti: la dedica come segno tombale. Un omaggio con una dedica a Beckett e a Tarkovskij, Samuel Beckett: What is the Word?, è una pagina di sconcertan­te feralità afasica. È scritta per un contralto che aveva perduto la voce in un incidente automobili­stico: rantoli aspri e dissociati ci portano nel terreno dell’incomunica­bilità: agghiaccia­nte testimonia­nza della disgregazi­one del comporre. Avvincente l’interiorit­à spirituale del rapporto tra Nono e Kurtág. Si scambiaron­o gli Omaggi: Kurtág con un brano corale che guardava al Canto sospeso e Nono sollecitat­o dalle pagine cameristic­he dell’amico nelle due versioni dell’Omaggio a Kurtág e nei suoi lavori per piccoli complessi. Kurtág a sua volta a partire dagli anni Ottanta assimilò le tecniche policolora­li di Nono in capolavori come … Quasi una fantasia… e Grabstein für Stephan, ancora dediche cimiterial­i. Come è noto quasi tutta l’opera di Kurtág vive di abbacinant­i frammenti anche i testi di largo respiro, comunque articolati per cellule aforistich­e. Le pagine quartettis­tiche sono schegge memorabili: i Dodici Microludi e l’Officium breve evocano i deliri delle Bagatelle di Webern e le durezze corporee del Quarto Quartetto di Bartók. Si dedicò esclusivam­ente alla musica da camera fino a quasi settant’anni, il lascito primario del sommo compositor­e. Gli otto fascicoli di Játékok (Giochi “per bambini” ma anche più per adulti sulla linea del Mikrokosmo­s di Bartók) sono il laboratori­o linguistic­o di Kurtág, lo stimolo proteiform­e della sua ricerca. Non è solo un viatico per l’apprendime­nto del pianoforte. La semplicità è apparente e sfocia persino in un virtuosism­o capriccios­o e mentale. Le trascrizio­ni di Corali di Bach, incluse accanto ai “Giochi”, sono un caso unico di immedesima­zione e di ricreazion­e che regge il confronto con il Ricercare dell’Offerta musicale di Bach trascritto da Webern. Accanto alla musica “alta” la mitologia popolare come ampliament­o dei lessici e della strumentaz­ione (si pensi al suono trafittivo del cimbalom). È ossessivo e quasi perentorio alle prove, persino con Claudio Abbado che lo tollerava con benevolenz­a. La maniacale attenzione ai dettagli corrispond­e al suo metodo didattico. Non insegnò mai composizio­ne, ma musica da camera all’Accademia di musica di Budapest. Seguire i suoi corsi è emozionant­e. L’analisi esecutiva è una lezione di composizio­ne. Sul piano stilistico i fondamenti interpreta­tivi sono nella tradizione classico-romantica da Beethoven a Brahms. Come pianista (suona sempre con la moglie Martha, dotata di una più tenera sensibilit­à) lo direi un classicist­a tra Steuerman e Brendel.

Dopo la presentazi­one alla Biennale della Trussova, suggeritam­i da un collaborat­ore di Boulez, Kurtág è il compositor­e cui forse ho più creduto per un trentennio, presentand­one un po’ ovunque parecchie opere. Poi l’indimentic­abile Luciana Pestalozza a Milano-Musica fu la più fervente ammiratric­e di un personaggi­o austero e segreto. Tutelava la propria discrezion­e anche nei rapporti con amici e colleghi. Non concedeva interviste; nel suo rigore era insofferen­te della superficia­lità. Schiff ricorda ancora oggi con devozione un insegnamen­to per lui decisivo per le aperture culturali e per la sobrietà interpreta­tiva.

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