VIANDANTE ungherese
Chi è il compositore amato da Boulez e Abbado che dopo una tentata Elettra rinascimentale approda al teatro avendo affermato la sua identità di erede della tradizione culturale mitteleuropea
claustrofobica). La partitura dell’atto unico (che dura poco meno di due ore) si articola in scene e monologhi senza interruzione, e comprende un Prologo aggiunto dal compositore (il testo è una poesia inglese di Beckett, Roundelay, cantata dal mezzosoprano) e un epilogo, “perché il lavoro ha una forma circolare. Nell’Epilogo ho orchestrato una Elegia per pianoforte che avevo composto per Reinbert de Leeuw, un amico che ha fatto molto per la mia musica: mi è sembrato che fosse una soluzione efficace alla fine dell’opera”.
Hamm, cieco, non può alzarsi dalla sua sedia a rotelle, mentre Clov non può sedersi e ha con lui un rapporto complesso, non solo di servitore. Dai due bidoni della spazzatura in cui sono chiusi emergono a tratti i genitori di Hamm, Nell e Nagg, che hanno perso le gambe in un incidente in tandem. Hamm “è il re in questa partita a scacchi persa fin dall’inizio” (Beckett). Nella staticità ripetitiva, nella vacuità delle conversazioni, nella apparente semplicità il testo è denso di allusioni e molteplici possibilità di interpretazione. Con ragione il regista Pierre Audi ha osservato che nell’opera di Kurtág la musica “mette in evidenza l’aspetto umano della tragedia” (e si potrebbe aggiungere: non senza momenti di lirica tenerezza per Nell). L’impressione al primo ascolto è di una stupefacente ricchezza, come se Kurtág fosse riuscito trasferire nell’ampia dimensione dell’opera l’intensità visionaria di immagini folgoranti, di parole strappate ad un silenzio al limite dell’afasia, che caratterizza i suoi cicli di pezzi brevi. Nella vocalità, nettamente individuata per ogni personaggio, non ci sono mai cadute nel banale declamato naturalistico, e l’orchestra, trattata in modo spesso cameristico, presenta una eccezionale ricchezza e varietà di colori. Per qualche passo Kurtág pensa a una revisione: “Marta dice che divorzierà se non correggo la strumentazione alleggerendola in qualche momento troppo denso”.
Una domanda sulla dedica della partitura a Ferenc Farkas (uno degli insegnanti di Kurtág quando era diviso tra le aspirazioni a diventare pianista o compositore), e all’amico musicista Tomas Blum, porta Kurtág a rievocare le esperienze della formazione, con riferimento alla drammaturgia musicale: “Farkas mi fece analizzare Rigoletto, Il Tabarro, molto altro Puccini, Don Carlos. E Blum mi diede l’occasione di lavorare a lungo su Falstaff…”.
György Kurtág raggiunse la notorietà internazionale dopo i cinquant’anni. Precedentemente coltivava il suo isolamento a Budapest esercitando, oltre al comporre, l’attività didattica da cui uscirono artisti della statura di András Schiff, di Zoltán Kocsis o di András Keller. L’affermazione in Occidente avvenne nel 1981 a Parigi per interessamento di Pierre Boulez (sorprendente l’ammirazione di un compositore geometrico per il passionale musicista ungherese) con la prima esecuzione assoluta dei Messaggi della defunta Signorina Trussova per voce e strumenti, presentati qualche mese dopo alla Biennale di Venezia. La Trussova testimonia l’acredine tragica del compositore nella caratterizzazione di un personaggio femminile devastato dalla nevrosi. È la punta estrema dell’espressionismo, una drammaturgia dell’angoscia che sembra nascere dall’ombra della Lulu di Berg. Dopo qualche anno nasce l’assoluto capolavoro dei Kafka-Fragmente per voce e violino che rivelano l’incontro e l’identificazione con lo scrittore ceco tra cupi risvolti, visioni surreali, ironie, l’inferno dell’anima. In quest’opera come nella Trussova si rivela tra i più profondi creatori vocali del Novecento nella sillabazione analitica, oltre allo Sprechgesang schoenberghiano, e nell’ansietà del canto. Come mai Kurtág ha esitato a lungo ad accostarsi al teatro con tante opere vocali che si muovono tra il mondo liederistico (penso per esempio alle poeticissime Scene da un romanzo) e le seduzioni della scena? Quando glielo chiesi in un tempo ormai lontano mi rispose che temeva l’esteriorità dello spettacolo. Evidentemente era un modo per non svelare progetti clandestini. Zoltán Peskó mi disse che pensava allora ad una Elettra rinascimentale, ma l’ipotesi è caduta; ora porta a termine Finale di partita in un ritorno a Beckett atteso il mese prossimo alla Scala. Kurtág vive spasmodicamente la categoria dell’espressivo rispetto all’egemonia culturale franco-tedesca; certo anche Maderna e Nono credevano nell’espressività soggettiva, ma con una scelta ideologica diversa: nonostante le tensioni drammatiche che percorrono la loro opera, i veneziani credevano negli esiti consolatori, nell’illusione della speranza, mentre Kurtág è un compositore funerario e si riallaccia al romantico pensiero negativo. Di qui le forti ascendenze storiche, dalla poetica del Viandante schubertiano alle allucinazioni dell’ultimo Schumann (il musicista forse più amato), dall’espressionismo viennese a Bartók come fondamentale esperienza conoscitiva. Questo sguardo rivolto alla Romantik fin dagli Anni Sessanta non suscitò consensi a Darmstadt; tant’è vero che nel ’68 mentre Stockhausen teneva i suoi corsi con la sperimentazione del comporre collettivo, l’ardente “sinfonia” per soprano e pianoforte I detti di Péter Bornemisza, di un misticismo blasfemo, cadde nel vuoto: eppure era la prima creazione potentemente originale del quarantenne Kurtág (diversamente da Ligeti i lavori giovanili sono ancora di un generico bartokismo). Sin dalla prima veneziana della Trussova sorse la domanda se Kurtág fosse o meno un compositore d’avanguardia. Fedele D’Amico dichiarò sull’“Espresso” il suo con-
senso sostenendo che il musicista non aveva nulla a che vedere con l’avanguardia. Evidentemente gli oppositori del cosiddetto dogmatismo della Scuola di Darmstadt vedevano in Kurtág una alternativa. Ma la serialità integrale era stata abbandonata da un ventennio anche dagli autori di punta: l’avanguardia si era aperta al molteplice e in questo senso Kurtág incarnava allora un polistilismo progressivo, ove un retroterra antico determinava il nuovo. Dunque Kurtág esprime a mio parere un’avanguardia eterodossa che giunge sino a Stockhausen: nel 1993 (forse come memoria di un dialogo sempre alacre) dedicò a Stockhausen il grandioso Rückblick (Guardando indietro), quasi un riepilogo delle sue passioni musicali ma con una impaginazione aleatoria che si direbbe stockhauseniana: la musica secondo Kurtág è una riflessione sul pensiero altrui. Gli omaggi e le dediche (di cui Giovanni Morelli ha letto gli aspetti reconditi) sono una costante della sua opera rivolta per lo più agli amici estinti: la dedica come segno tombale. Un omaggio con una dedica a Beckett e a Tarkovskij, Samuel Beckett: What is the Word?, è una pagina di sconcertante feralità afasica. È scritta per un contralto che aveva perduto la voce in un incidente automobilistico: rantoli aspri e dissociati ci portano nel terreno dell’incomunicabilità: agghiacciante testimonianza della disgregazione del comporre. Avvincente l’interiorità spirituale del rapporto tra Nono e Kurtág. Si scambiarono gli Omaggi: Kurtág con un brano corale che guardava al Canto sospeso e Nono sollecitato dalle pagine cameristiche dell’amico nelle due versioni dell’Omaggio a Kurtág e nei suoi lavori per piccoli complessi. Kurtág a sua volta a partire dagli anni Ottanta assimilò le tecniche policolorali di Nono in capolavori come … Quasi una fantasia… e Grabstein für Stephan, ancora dediche cimiteriali. Come è noto quasi tutta l’opera di Kurtág vive di abbacinanti frammenti anche i testi di largo respiro, comunque articolati per cellule aforistiche. Le pagine quartettistiche sono schegge memorabili: i Dodici Microludi e l’Officium breve evocano i deliri delle Bagatelle di Webern e le durezze corporee del Quarto Quartetto di Bartók. Si dedicò esclusivamente alla musica da camera fino a quasi settant’anni, il lascito primario del sommo compositore. Gli otto fascicoli di Játékok (Giochi “per bambini” ma anche più per adulti sulla linea del Mikrokosmos di Bartók) sono il laboratorio linguistico di Kurtág, lo stimolo proteiforme della sua ricerca. Non è solo un viatico per l’apprendimento del pianoforte. La semplicità è apparente e sfocia persino in un virtuosismo capriccioso e mentale. Le trascrizioni di Corali di Bach, incluse accanto ai “Giochi”, sono un caso unico di immedesimazione e di ricreazione che regge il confronto con il Ricercare dell’Offerta musicale di Bach trascritto da Webern. Accanto alla musica “alta” la mitologia popolare come ampliamento dei lessici e della strumentazione (si pensi al suono trafittivo del cimbalom). È ossessivo e quasi perentorio alle prove, persino con Claudio Abbado che lo tollerava con benevolenza. La maniacale attenzione ai dettagli corrisponde al suo metodo didattico. Non insegnò mai composizione, ma musica da camera all’Accademia di musica di Budapest. Seguire i suoi corsi è emozionante. L’analisi esecutiva è una lezione di composizione. Sul piano stilistico i fondamenti interpretativi sono nella tradizione classico-romantica da Beethoven a Brahms. Come pianista (suona sempre con la moglie Martha, dotata di una più tenera sensibilità) lo direi un classicista tra Steuerman e Brendel.
Dopo la presentazione alla Biennale della Trussova, suggeritami da un collaboratore di Boulez, Kurtág è il compositore cui forse ho più creduto per un trentennio, presentandone un po’ ovunque parecchie opere. Poi l’indimenticabile Luciana Pestalozza a Milano-Musica fu la più fervente ammiratrice di un personaggio austero e segreto. Tutelava la propria discrezione anche nei rapporti con amici e colleghi. Non concedeva interviste; nel suo rigore era insofferente della superficialità. Schiff ricorda ancora oggi con devozione un insegnamento per lui decisivo per le aperture culturali e per la sobrietà interpretativa.