PUCCINI LA FANCIULLA DEL WEST
E. Magee, R. Aronica,
INTERPRETI
C. Sgura, B. Lazzaretti, P. Orecchia, C. Checchi
Juraj Valcuha
DIRETTORE
Teatro San Carlo
ORCHESTRA
Hugo de Ana
REGIA
Tiziano Mancini
REGIA VIDEO
It., Ing., Fr., Ted., Cin., SOTTOTITOLI Giap.
DVD Dynamic 37816
24,30
PREZZO
★★
La scena è molto bella. Impianto sostanzialmente fisso, costituito da una sorta di lignea zattera al centro di una landa piatta su cui incombe il cielo dei tipici film western in technicolor anni Cinquanta: pochi oggetti trasformano la Polka del prim’atto nella stanza di Minnie del secondo e nella miniera del terzo. Anche i costumi non sono male: molto cinema americano con spruzzate di Sergio Leone (alluso già sulle prime battute, allorché il sipario s’alza su un velario che riproduce celeberrime locandine di mezzo secolo di cinema western, dagli anni Dieci di
Intolerance di Griffith ai Sessanta di C’era una volta il West
di Leone, passando per Mystery Ranch di Howard, Deep in the heart of Texas di Clifton,
Hondo di Farrow), e con l’intelligente trovata di fare arrivare Minnie non coi soliti pantaloni e stivaloni con doppia fondina per pistole (con l’inevitabile comico involontario dietro un angolo che viene svoltato quasi sempre), bensì in vestina azzurra con cappellino in tinta, molto genere Grande Mamma, che difatti giova assai al fisico alquanto opimo della Magee. Ma una volta di più si dimostra che uno scenografo e costumista di vaglia quasi mai sa essere anche regista. Fanciulla
ha come quarto e importante protagonista il gruppo dei minatori. Come muoverli, come farne personaggio unico ancorché multicefalo, è compito essenziale d’un regista vero (Carsen, Lehnhoff, Loy, tanto per citare i maggiori cimentatisi con quest’opera): che qui viceversa appiattisce tutti rendendoli indistinguibili, e altro non sa far fare che costringerli ogni due per tre a tirar fuori un pistolone e a puntarlo in giro come viene viene, separando ognuna di tali estrazioni con un incedere dinoccolato che pateticamente scimmiotta il deambulare dei grandi caratteristi di quegli stessi film evocati all’inizio. Qualche sprazzo lo forniscono motu proprio i tre protagonisti (in ispecie Sgura, sempre stato grande attore), ma “è vana impresa” perché se non c’è un progetto e una riconoscibile ottica interpretativa, un’occhiata qui e un gesto là, per appropriati che siano, restano autoreferenziali e amen: e se l’idea d’un cantastorie cieco guidato da un ragazzino profuma parecchio di puccinismo, ci si piomba a capofitto con scialo di melassa quando s’è costretti a vedere la Minnie che conclude la lettura del sermone distribuendo santini quinci e quivi.
Né supplisce più di tanto il nuovo direttore musicale del San Carlo. Non certo perché Valcuha non diriga bene, tutt’altro: ma è una direzione marcatamente sinfonica. Senz’altro sacrosanto sottolineare quanto determinante sia il ruolo dell’orchestra in quest’opera (anche ricordando la celebre boutade di Mitropoulos del sognare di dirigerla senza voci; ma è appunto una facezia e nient’altro), ma non meno sacrosanto è che tale ruolo sia pur sempre da rapportarsi alla linea vocale: cercando - e possibilmente trovando, pur nella diversità sempre possibile ai grandi interpreti – quella particolare integrazione tra tessuto sinfonico e conversazione vocale che è ragione non certo ultima della straordinaria modernità di Fanciulla. Valcuha sminuzza, analizza, evidenzia e senz’altro valorizza molte delle innumerevoli gemme che Puccini sciorina in fatto di strumentazione, giri armonici, convulsioni melodiche: nell’ambito d’una generale propensione verso un lirismo estenuato che forse vorrebbe aspirare a essere lancinante lirismo, ma riesce piuttosto mesta melanconia con più d’un sospetto di sciropposo puccinismo. Con due aggravanti. L’infilata di bellurie una accanto all’altra è una raffinata, compiaciuta e immobile vetrina anziché un concatenarsi di una nell’altra entro un incalzante percorso teatrale che vada sempre in avanti. E nessuno spunto viene suggerito al canto né tampoco da esso accolto e inserito nello strumentale in quel compatto organismo che viceversa i maggiori interpreti di Fanciulla (per mio conto Mitropoulos, Bartoletti, Sinopoli, Chailly) hanno sacrosantamente evidenziato quanto geniale sia, e quindi quanto essenziale debba essere il riuscire a organizzarlo. Canto che peraltro ha il pesante fardello d’una protagonista impari a così impegnativo compito. La dizione sarebbe anche genericamente corretta, ma il sistematico sbaglio d’ogni “e” e “o” - accento acuto quando dovrebb’essere grave, e viceversa - s’unisce a una loro apertura a voragine nel quadro d’una linea vocale che anziché fluido declamato melodico è greve e motoso semiparlato: nella sua costante incapacità di far leva anche sulle consonanti in luogo delle sole vocali (per giunta sempre spalancate), sulle frasi si spalma una costante patina di aulica retorica agli antipodi del genialissimo e mobilissimo conversar cantando pucciniano. E poi gli acuti sono spesso striduli, i gravi sono infarciti d’aria calda perché troppo aperti, la linea manca di morbidezza e d’omogeneità, la dinamica (priva d’alcun suggerimento dalla buca, va sottolineato) è povera quando non assente. In origine era prevista Anna Pirozzi, scelta che appariva oltremodo sensata: ignoro le ragioni per le quali s’è ripiegato su altre scelte, ma dato che nell’altro cast figurava Rebeka Lokar, c’è da rammaricarsi dell’infausta decisione di averle preferito per la registrazione un nome magari più massmediaticamente noto, ma tanto meno attrezzata in sede vocale.
Senza confronto meglio i due uomini. Roberto Aronica già nelle recite milanesi con Chailly non aveva mostrato alcun problema nel dominare una parte tanto scorbutica, ma qui è in forma anche migliore nel plasmare una linea solidissima ma pure morbida, omogenea, facile nell’involo a un registro acuto squillante e luminoso: in più, nonostante lo scarso o nullo supporto orchestrale in fatto di dinamica (non basta certo attenuare il suono per dimostrarsi buon accompagnatore al canto) riesce a fraseggiare con varietà e gran senso del giusto stile pucciniano, componendo un Johnson destinato a restare quale importante riferimento nell’attuale panorama interpretativo pucciniano. Claudio Sgura replica pure lui la già ottima prova milanese, con an-
cor più sottigliezza d’accenti e chiaroscuri, dominando il palcoscenico con un talento recitativo tra i maggiori di oggi. Comprimari accettabili, orchestra capace di uscire con onore da prova tra le più ardue che il repertorio possa proporre.