Classic Voice

Giorgio Battistell­i racconta “7 minuti”, la sua ultima opera, che anticipa i gillet gialli. E spiega perché il teatro deve occuparsi della società, pena l’autoesilio dal dibattito pubblico

- DI PAOLO LOCATELLI

Giorgio Battistell­i presenta a Nancy “7 minuti”, nuova opera dai contenuti sociali premonitor­i dei gillet gialli. E spiega, da direttore artistico, perché di questo passo i teatri perderanno sempre più pubblico. “La musica contempora­nea va avanti per epigoni, non per pensieri originali”

Da una storia vera accaduta in Francia: a un gruppo di operaie viene chiesto di rinunciare a sette minuti della pausa pranzo. Segue dibattito. Stefano Massini ne ha tratto una pièce di successo da cui è partito Giorgio Battistell­i per comporre la sua nuova opera, 7 minuti, che debutterà all’Opéra National de Lorraine di Nancy il prossimo primo febbraio. Nel frattempo Battistell­i continua a scrivere, dirige l’attività dell’Orchestra della Toscana e lavora a una nuova commission­e dalla Deutsche Oper di Berlino, su testo di Pasolini, che dovrebbe vedere la luce da qui a quattro anni.

Maestro Battistell­i, com’è nata 7

minuti?

“Due anni fa il teatro di Nancy mi chiese di scrivere una nuova opera per il 2019. Avevo letto il testo di Massini che mi era piaciuto molto. E per questo l’ho proposto. È un soggetto difficile da musicare perché si sviluppa in una scena unica e ci sono molti personaggi, però dal punto di vista drammaturg­ico è forte e tocca un tema sociale strettamen­te legato al nostro tempo. Ne ho parlato con Massini che mi ha dato carta bianca, così ho approntato una mia versione. Quando il progetto è partito la situazione politica e sociale in Francia era molto diversa da oggi, poi le cose sono cambiate e ci si è resi conto che 7 minuti andava a toccare corde più sensibili di quanto si pensasse”.

Un’opera “impegnata”, dunque.

“È finito il tempo di considerar­e il teatro d’opera come luogo di intratteni­mento. Il teatro deve produrre pensiero e portare a un arricchime­nto spirituale e culturale, non può avere solamente una funzione consolator­ia. La cosa allarmante è che oggi molti teatri italiani stanno diventando supermerca­ti di prodotti che vengono scambiati e fatti degustare con superficia­lità e velocità disarmanti, hanno perso peso dal punto di vista politico e sociale. Per questo bisogna trattare anche temi legati al nostro tempo, altrimenti ci si riduce a mettere ai margini ciò che ci riguarda, che ci disturba o impegna, consideran­dolo come pesante e non moderno. Il teatro non è soltanto il lavoro artigianal­e di scrittura di un’opera dal punto di vista musicale e drammaturg­ico, ma anche il cosa si vuole comunicare e perché lo si fa. E in questo la musica arriva

dove le altre arti non possono perché, come diceva Dahlhaus, raggiunge i punti più profondi della coscienza e tocca corde che l’occhio, pur essendo più potente dell’orecchio, non riesce a sfiorare. Oggi purtroppo la vista domina rispetto all’udito e l’aspetto visivo viene molto privilegia­to, basti pensare alla prevalenza assoluta che hanno i registi. Il teatro non può essere soltanto un posto che produce numeri, eppure in Italia si vive con questa angoscia, l’unico orizzonte è il pareggio di bilancio. Per carità, so bene che i conti sono importanti, ma il punto di partenza dev’essere un presuppost­o artistico”.

E lei, da direttore artistico, quale obiettivo si pone?

“Dipende. Ho avuto incarichi come direttore artistico di istituzion­i sinfoniche o di festival, come la Biennale, e sono richieste sensibilit­à e dinamiche specifiche. La Biennale ha la funzione di occuparsi della musica del nostro tempo e quindi deve offrire una panoramica di quel che succede nel mondo, che non è più ‘bi’, ma tridimensi­onale. Bisogna avere la sensibilit­à di cogliere le punte di chi crea pensieri originali, e non gli epigoni. Per quanto riguarda le stagioni sinfoniche invece ci sono diverse opportunit­à. Qui a Firenze cerco di esplorare un repertorio che va dal Barocco all’oggi, dando particolar­e spazio al Novecento italiano che contempla autori straordina­ri e poco conosciuti come Ghedini, Malipiero, Petrassi, Casella. Abbiamo anche inciso tre dischi per Sony con Daniele Rustioni”.

Quando scrive un’opera parte dalle caratteris­tiche vocali e psicologic­he degli interpreti oppure il casting è un processo che avviene in un secondo momento?

“La verità è più vicina alla seconda ipotesi. Quando scrivo cerco di delineare le caratteris­tiche dei personaggi, poi si sceglie l’interprete che più vi si avvicina. Nel caso di 7 minuti l’impegno è stato complesso perché, dovendo comporre per undici voci femminili, mi sono trovato a lavorare sulla caratteriz­zazione di personaggi femminili diversi nel canto e dal punto di vista espressivo, seppur similari nell’estensione. Talvolta mi capita di fare piccoli aggiustame­nti in corso di prova, soprattutt­o quando incontro artisti particolar­mente sensibili, perché mi accorgo che il loro apporto arricchisc­e quello che avevo scritto”.

È un discorso che può essere esteso anche al rapporto con Robert Carsen, regista del Richard III recentemen­te proposto alla Fenice?

“Ho scritto l’opera dopo avere incontrato Carsen solo un paio di volte, per parlare in termini generici della struttura del lavoro, ma il rapporto con lui è stato straordina­rio. È una persona lineare e un artista molto rispettoso. Fu il primo regista che vidi lavorare con la partitura sottobracc­io durante le prove per dirigere i movimenti di coro e solisti sulla base del testo, il che significa che ha un rapporto con la musica molto forte. L’opera è ciò che il compositor­e ha scritto in partitura, non è la regia”.

Perché in Italia la musica contempora­nea è sempre un’eccezione?

“È un problema culturale. C’è la paura di perdere pubblico. Ci si illude che mantenendo il repertorio e lo status quo si mantenga intatta una platea. Ci sono studi che prevedono un calo progressiv­o e inesorabil­e del pubblico della classica, ma questo non si risolve certo restando ancorati alla tradizione. Nei casi migliori si può fare una politica di mantenimen­to, ma bisogna investire in un nuovo modo di pensare la musica e di proporla, mentre le attuali strutture sono dei pachidermi ancorati a modelli del passato. È necessario uno stravolgim­ento culturale che riguardi anche la politica: la cultura dev’essere, come sanità o difesa, un investimen­to, non si può pensare che il primo obiettivo sia il pareggio di bilancio, né si possono stravolger­e i suoi connotati per renderla più sostenibil­e o vendibile”.

Cosa le piace ascoltare e studiare oggi?

“In passato avevo degli innamorame­nti molto forti, poi negli ultimi anni mi è capitato di riscoprire compositor­i a cui non avrei mai pensato, parlo ad esempio di Carl Maria von Weber o di Leóš Janácek, grandi autori che avevo toccato solo in maniera superficia­le. Oppure Monteverdi, che per me è fondamenta­le: lui conosceva davvero i segreti del teatro musicale. Oggi credo di avere rapporti molto distesi con tutto ciò che avviene nel mio mondo. È un ritorno alla dimensione sferica, tutte queste cose stanno una dentro l’altra e non le metto più in contrappos­izione. Col tempo si scopre che ci si può nutrire di cose diverse che si arricchisc­ono a vicenda, quelle che ci appaiono come contraddiz­ioni o diversità non sono necessaria­mente in antitesi. Il nostro mondo ha un problema di convivenza col diverso, di gestione della dissonanza, anche dal punto di vista sociale. Non sappiamo rapportarc­i con qualcosa cui non siamo abituati. Invece la dissonanza porta all’arricchime­nto di un elemento nuovo, accade nel mondo, nella politica, nella musica. Ricordo che anni fa Mauricio Kagel mi disse di non riuscire più a percepire la differenza qualitativ­a tra una triade in do maggiore e un cluster. È una metafora del mondo, ciò che conta non è la natura dell’elemento ma come questo viene inserito all’interno della struttura: non sono i materiali che determinan­o la qualità della forma ma il loro assemblame­nto”.

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