Michael Tilson Thomas lascia la San Francisco Symphony (arriverà Salonen) e racconta la sua visione dell’educazione. Alla Steve Jobs
Dalla sua casa, la San Francisco Symphony, al ritorno in Europa per una tournée con i Wiener Philharmoniker che passerà anche da Lugano. Il “guru” Michael Tilson Thomas, a metà tra Steve Jobs e Leonard Bernstein
Michael Tilson Thomas d’ora in poi Mtt come ama farsi chiamare da musicisti e collaboratori - parla per frasi brevi, assicurandosi che tutto quello che dice venga compreso. Si direbbe un’ossessione, quella di trasmettere messaggi, di lasciare un segno, di farsi capire. La conversazione farà emergere il motivo. A 74 anni appena compiuti squaderna un armamentario motivazionale degno della lectio del suo concittadino Steve Jobs ai neolaureati di Stanford. “Be surprised, amused, inspired”, è il suo motto. In qualche modo, sembra aver trasferito quell’eredità propositiva anche al mondo della musica. Sarà l’aria di San Francisco. O forse il fatto di aver passato anni al fianco di un mentore come Leonard Bernstein e inalato a pieni polmoni l’ultima decade di Igor Stravinskij. In gennaio l’Europa riascolterà questo figlio moderno di un’America con i piedi nel Novecento e la testa oltre il traguardo del futuro. Dopo la prima tappa parigina con l’Orchestre de Paris, da Vienna partirà il suo tour con i Wiener Philharmoniker. Al Lac di Lugano, il 18 gennaio, ci sarà l’occasione più vicina per sentirlo dal vivo, in un programma giocato tra Beethoven (Concerto n. 3 con Igor Levit al pianoforte), Bramhs (Sinfonia n. 2) e il suo amato Charles Ives (Decoration Day). Dal podio si vedrà una porzione della sua attività. Mtt è infatti uno sfaccettato esploratore che da una coast all’altra dell’America si ricrea di continuo: ora nei panni del conduttore di documentari per la televisione e per la radio (nella serie Keeping Score), ora come insegnante al New World Center che ha fondato trent’anni fa nel cuore di Miami Beach per ospitare un centro di formazione musicale all’avanguardia, e infine come direttore musicale della San Francisco Symphony Orchestra. Ma almeno su quest’ultimo fronte - lo ha annunciato da poche settimane - Mtt allenterà gli impegni. Dal 2020, dopo venticinque anni di guida, lascerà il posto al suo erede Esa Pekka-Salonen, che già da anni gli fa visita regolarmente come professore ospite al New World di Miami.
Cosa le ha fatto decidere di smettere dopo un quarto di secolo?
“Il 2020 sarà un anno di anniversari. Compirò 75 anni, un terzo dei quali passati con quell’orchestra. È il tempo di fare questo passo e di prendermi qualche rischio. Ho tanti progetti avviati e vorrei essere sicuro di poterli portare a termine. In casa ho moltissimo materiale che ho raccolto e musica che ho composto. È giunto il momento di dare una forma a tutto questo. Così dal 2020 in avanti mi prefiggerò di far uscire almeno una mia composizione ogni anno”.
Lei è pianista, compositore, divulgatore, direttore d’orchestra. Praticamente lo stesso ritratto di Bernstein. Quanto l’ha influenzata la sua creatività?
“Indubbiamente esser cresciuto musicalmente vicino a lui, vedendo persino nascere alcune delle sue prèmiere, mi ha dato modo di conoscerlo in maniera privilegiata. E collaborare a far sorgere un’opera che prima non c’era, con lui è sempre stata un’iniezione di energia difficilmente raccontabile. Ma a dispetto dell’immagine di organizzatore meticoloso, quale indubbiamente era, la sua caratteristica migliore era quella dell’improvvisatore. Credo sia stato il miglior performer da questo punto di vista”.
E Stravinskij?
“Di lui ricordo un senso di eleganza inarrivabile. E l’approccio musicale sempre guidato dal ritmo e dalla danza. Un’immaginazione sorgiva, vulcanica. Entrambe queste figure hanno un tratto comune: hanno fatto vedere, e non certo solo a me, che il mondo reale è là fuori, che la musica non si fa soltanto tra i leggii dell’orchestra, ma nelle strade, con le persone”.
Li ha presi alla lettera. Dalla West Coast è approdato alla East Coast, dove nel 1987 ha fondato il New World Center, con una delle prime orchestre
accademiche degli Stati Uniti.
“Il New World è stato una sorta di utopia realizzata, anche grazie al contributo fondamentale di forze filantropiche. È un luogo di creatività quotidiana, animato da professori che vengono da fuori e portano costantemente nuove idee. Lì non si formano solo musicisti, ma si educa a tutto tondo, cercando di far interessare anche le persone che non frequentano il New World per motivi di studio (anche per questo negli spazi all’aperto si organizzano corsi di yoga mattutini, ndr). Ho dato grande importanza agli scambi e alla circolazione dei saperi. Le lezioni avvengono sia dal vivo sia tramite internet. Non è detto che certe cose non si possano trasmettere anche attraverso uno schermo. Anzi, a volte le lezioni riescono persino meglio”.
Se Bernstein fosse stato vivo nell’era di internet, come lo avrebbe usato?
“In maniera curiosa e divertita, sicuramente cercando di trarne un’occasione per veicolare le sue idee. Il web, le radio, i nuovi mezzi servono a questo: a rendere la musica più accessibile, come mostra anche l’esperienza della YouTube Symphony Orchestra, un ensemble di un centinaio di membri selezioni attraverso le audizioni video online che ho diretto anche alla Carnegie Hall. Internet ha democratizzato la musica, perché l’ha resa disponibile a tutti. È la vera rivoluzione culturale e musicale degli anni Duemila. Non chiedetemi come diventerà la musica tra cento anni. Già ora stiamo vivendo un’epoca in cui ogni messaggio musicale è fatto a pezzi, tagliato, riassemblato per poi essere rivenduto in forme diversissime. Ma per me la domanda centrale è un’altra”.
Quale?
“Cosa accade dopo che abbiamo ascoltato musica? Cosa ci rimane addosso? Questo è il mio principale campo di ricerca. Come musicista, mi interessa molto capire il messaggio che lascio, più ancora che di quello che suono. Per anni, per non dire secoli, il musicista ha fatto performance al chiuso, in una sala da concerto, concentrandosi solo su quello che doveva suonare, con la testa china sul perimetro del leggio. E poco gli importava cosa stesse accadendo nel cervello di chi lo ascoltava. Oggi invece non possiamo più ignorare quest’aspetto. Prenderci cura di quel che succede un minuto dopo che abbiamo chiuso la partitura è il nuovo dovere di ogni musicista”.
Anche da qui ha preso vita il progetto SoundBox a San Francisco. Ce lo racconta?
“SoundBox è nato come un piccolo night-club, con lo spirito di avvicinare i giovani alla musica facendola vivere come un’esperienza naturale, non separata dal resto della vita. Entrano nel club, pagando il biglietto normalmente (attorai no 45 dollari, ndr). Mangiano cibo di quaconversano, lità, si siedono dove vogliono in un’atmosfera a loro familiare, con le luci studa diate un light-designer. E intanto ascoltamusica, no da Bach a Lou Harrison, sia con un dj sia con musicisti live o addirittura membri della San Francisco Symphony. Una app sulsmartphone lo spiega in tempo reale cosa si sta ascoltando, senza per questo rinunciare alla socialità, che è un elemento decisivo nell’espemusicale. rienza A Miami, sulla grande facciata del New World abbiamo organizzato i concerti WallCast, che per ogni stagione consentono a tutti di godersi le esibizioni all’aperto, guardandole direttamente su uno schermo gigante. È uno dei modi che intendo per definire confortable la musica”.
Pensa di aver vinto la sua scommessa?
“Credo che sia uno dei tanti modi possibili per ripensae re al ruolo della musica del suo pubblico. Ho sempre incoraggiato ad andare oltre le righe del pentagramma. Noi non siamo pagati per riprodurre delle note scritte. I musicisti devono sempre cercare di tornare all’ispipoi razione originaria che ha prodotto il risultato che vediamo sulla carta.
Un po’ come fanno i registi del cinema con gli attori: un regista non chiede di replicare una parte del copione, ma spinge i suoi attori a prendersi dei rischi, a definire meglio lo spazio in cui si muovono, sempre con l’intento di sorprendere. Se la musica non fa questo, semplicemente muore”.