La voce scolpita di Birgit Nilsson, un carro armato di tecnica e pragmatismo. Da scaricare il raro “Castello di Barbablù” con Fricsay
Un fenomeno vocale apparso cent’anni fa nelle campagne svedesi. La Nilsson aveva tecnica di ferro e razionalità robotica. In Argentina si fece convertire il cachet in oro, temendo la svalutazione. Wagner e Turandot i campi prediletti. Ma qui è nel raro disco del “Castello di Barbablù”
Per abbozzare un profilo di Birgit Nilsson a poco più di cent’anni dalla nascita (17 maggio 1918) può essere utile incrociare due tipi di fonti: le coordinate (auto)biografiche, magari partendo dal fondamentale La Nilsson: My Life in Opera, e le registrazioni video. Perché i video? In fondo la gloria del soprano svedese non parrebbe legata a formidabili doti attoriali e nemmeno a una particolare avvenen- za, eppure ogni suo filmato ne qualifica la cifra artistica almeno quanto i dischi, anzi, dà modo di scorgere quel fenomeno canoro alle radici. La Nilsson era innanzitutto una prodigiosa macchina sonora. Lo stesso Rudolf Bing la considerava tale: una sorta di distributore automatico che in cambio di moneta sapeva produrre meraviglie vocali. Come fosse possibile lo si capisce osservandone la mimica nel canto: un manuale di tecnica applicata, quasi estremizzasse la gestione strumentale che ogni cantante fa del proprio corpo. Sul palco era un Moai col mento fieramente proteso alla platea che immobile articolava i suoni attraverso la sola modulazione del labbro e piccoli
aggiustamenti della mandibola. Prima che un’interprete, la Nilsson era uno strumento di fonazione: suono, tanto e bello, da scaraventare addosso al pubblico per travolgerlo e sedurlo. Il resto veniva dopo e le interessava il giusto; beninteso, il giusto secondo lei. Il che la portava ad avvicinare pressappoco alla medesima maniera ogni pagina del repertorio, cucendosela addosso sulla propria taglia. Un metodo che dava risultati spesso straordinari, altre volte discontinui (la sua Donna Anna non scala le vette della discografia). A quell’omogeneità inossidabile dello smalto vocale si univano una musicalità e un gusto per il fraseggio dalla franchezza genuina. E qui si arriva alla biografia. Birgit Nilsson nasce a Västra Karup, un paesello di poche centinaia di anime disperso nelle campagne della costa sud-occidentale della Svezia. La sua infanzia è quella che ci si può aspettare da una bambina che cresce nel contado svedese negli anni più neri del Novecento europeo, con le sollecitazioni culturali che ne derivano. L’insegnante Ragnar Blennow la instrada al canto e nel 1944 viene accettata al Royal College of Music. Sta per nascere “La Nilsson”. Il debutto vero e proprio avviene nell’ottobre del 1946 all’Opera di Stoccolma come Agathe nel Freischütz, poi arrivano subito le parti più pesanti. Nel marzo seguente è Lady Macbeth, personaggio che porterà in sala d’incisione quasi due decenni più tardi sotto la bacchetta di Thomas Schippers. Nel ‘51 esce per la prima volta dai patri confini quando Busch la sceglie per Elettra a Glyndebourne. Wagner però c’è già e scalpita. Da subito affronta Sieglinde e Brünnhilde (1949), salvo poi abbandonare quasi definitivamente la prima, quindi arrivano Senta, Elsa, le due donne del Tannhäuser (incise in contemporanea con Gerdes) e tutto il resto. La consacrazione al fuoco wagneriano coincide con la seconda stagione a Bayreuth. Nel 1953 la Nilsson si fa conoscere in collina con la Nona di Beethoven ma il debutto operistico vero e proprio avviene solo l’anno seguente con Elsa. La regia è di Wieland Wagner, che la richiamerà nel suo feudo per altre quindici stagioni. Lei stessa sarà sempre riconoscente al geniale profeta della Neue Bayreuth. Fortunatamente rimane una testimonianza di quel Lohengrin del ‘54 con Wolfgang Windgassen, che sarebbe poi diventato uno dei suoi partner preferiti, nel ruolo eponimo. Nella stessa estate presenzia nel cast della Valchiria, negli insoliti panni di Ortlinde, accanto a Varnay e Mödl. Dirige Keilberth, ottimo direttore “da cantanti”, dice lei, “calmo e accurato”. Poi verranno anche i grandi teatri europei e americani. Nel ‘58 è l’ora della Scala con Turandot e Valchiria, nel ‘59 il Met e così via. Le cronache dell’epoca raccontano che a New York Rudolf Bing pagasse le prestazioni della Nilsson più di quelle della Callas e lei ci tiene a confermarlo: Nilsson 3000 dollari a serata, Callas 1000, che su richiesta di Meneghini divennero 1001. Bing li versava sadicamente in banconote da uno. Il 16 giugno del 1982 a Francoforte sale per l’ultima volta sul palco in una performance operistica nella sua collaudatissima Elektra. Chi si aspettasse struggimenti e malinconie resterà deluso. Una razionalità robotica: c’è un tempo per cantare e uno in cui bisogna accettare che non è più il caso. Tutto qua, nessun rimpianto. Un cinismo tutt’altro che inedito. Nel 1955 la Nilsson si trovava a Buenos Aires per cantare Isolde al Colón; Perón aveva le ore contate. Un’esplosione distrusse una sede di partito vicino all’hotel del soprano. Nessuna paura, lei portò a casa le sue due recite e quando dovette andarsene, temendo la svalutazione del peso, svuotò il cachet in una gioielleria e decollò dall’Argentina imbottita d’oro. Suo marito Bertil tintinnava come un glockenspiel. Questa era la Nilsson, tanta voce e pochi fronzoli. Un pragmatismo contadino e la giusta misura nel prendersi sul serio, senza risparmiarsi qualche accento ironico. La sua Tosca dai modi spicci e risoluti rende l’idea. Fredda e pratica forse per indole nordica o semplicemente per corazza. Seria, corretta e lineare, un carro armato. Non sorprende che il suo repertorio si sia progressivamente ristretto a una manciata di ruoli, quelle in cui le sue sciabolate potevano trafiggere con migliore esito il pubblico e, incidentalmente, che pagavano meglio. Può darsi che il suo temperamento si sposasse meglio con i caratteri più androgini, laddove la femminilità può estrinsecarsi nella risolutezza o in un piglio da Amazzone. Brünnhilde, Turandot e per certi versi Minnie nel
repertorio italiano, Elekra. L’altro lato della Luna, quello delle donne dalla psiche più tormentata e complessa, rimane alla penombra di un canto spettacolare che però va poco oltre l’edonismo: Isolde, Salome, Sieglinde sono monumenti della vocalità di gelido marmo. Tratti che balzano all’occhio se si guarda a chi affrontava lo stesso repertorio stando sull’altra sponda del fiume: la Varnay, la Mödl, la Borkh. Soprani che alla luminosità abbagliante di un canto onnipotente, e forse proprio per questo impenetrabile, contrapponevano suoni nudi e disarmati, volti a scavare nella carne dei personaggi a prezzo di sacrificare l’ortodossia dell’emissione – ammesso che ne esista una – e spesso la salute delle corde vocali. La Nilsson era un’altra cosa. Prima veniva la voce, poi il teatro. Un approccio tolemaico del cantante all’opera: preferibilmente lei stessa al centro dell’Universo e il resto che gravita intorno. Ciò che cortocircuitava con il suo sistema di riferimento le andava di traverso. Pollice verso per gli ingegneri della Decca che favorivano l’orchestra rispetto alle voci o per i direttori poco compiacenti. Karajan? Un presuntuoso. Maazel si perdeva gli attacchi al palco, Boulez impreparato, “obviously” aggiunge malignamente. Sawallisch gran professionista perché sapeva togliere le castagne dal fuoco ai cantanti in difficoltà. Di Kleiber preferisce ricordare i piccoli difetti. Hanno un rilievo sia storico che sostanziale le sue escursioni in terra verdiana, in contrasto con certa espressività iper-italiana. Almeno Aida e Amelia sono testimonianze da conoscere.