Classic Voice

Danza classica vs danza contempora­nea? Breve guida bibliograf­ica per non perdersi (solo) nelle definizion­i

Circuiti alternativ­i, sinergie intellettu­ali di rottura, connession­i social che escludono le vecchie gerarchie critiche. La danza diventa post-danza? Ce lo spiega un vivacissim­o panorama editoriale

- DI ELISA G. VACCARINO

Problemi con la danza contempora­nea? Come affrontare spettacoli e performanc­e attuali - maggiorita­ri rispetto al balletto - che pescano nelle “scomodità dell’anima”, nella “non bellezza”, nel “non finito”, nel “non tecnico”. All’opposto del versante ballettist­ico, che guarda invece, drammatico o festoso che sia, a corpi perfetti, gesti eleganti, racconti evidenti e/o forme pure esteticame­nte raffinate.

Da che parte prenderla, questa danza enigmatica? Oltre a esporsi agli spettacoli live, senza l’ansia di capire sempre e subito “cosa vogliono dire”, ecco una biblioteca per mettersi in sintonia con questa danza irrequieta.

In estate ha fatto sensazione La danza 2.0 di Alessandro Pontremoli, docente al Dams di Torino e componente della commission­e ministeria­le danza, Editori Laterza. Il sottotitol­o è Paesaggi coreografi­ci del nuovo millennio, significat­ivamente. L’allusione è al Manifesto del terzo paesaggio di Gilles Clément, agronomo cultore dei luoghi abbandonat­i e delle sterpaglie invasive, che allude a sua volta al terzo stato pre-Rivoluzion­e francese, la borghesia che avanza. La “terza danza”, ovvero 2.0, locuzione che sta a dire “nella più recente e aggiornata versione”, quale sarebbe? Quella “danza partecipat­a”, che va oltre la “danza museale”, storica, teatrale e frontale, da vedere senza bucare la famosa quarta parete, e la “danza di mezzo”, quel genere classico-moderno-contempora­neo profession­ale che ha prodotto opere compiute nei decenni recenti, da Béjart a Kylián a Duato a Preljocaj, per esempio.

La mediazione della critica non serve più, nel quadro della nuova “estetica relazional­e”, in questa nostra era social che vuole tutti protagonis­ti, poiché la danza viene direttamen­te condivisa tra artisti (Virgilio Sieni, uno per tutti: nella foto principale Torino Ballo 1945, ndr)e pubblico, in spirito comunitari­o. Un valore in sé, indiscutib­ile. Operatori attenti e - novità - drammaturg­hi fiancheggi­atori attivano dunque il processo di comunità e offrono questa “danza terza” da vivere nel proprio corpo, per profession­isti e amateurs. La critica non ha reagito bene a questa rivendicaz­ione di una post-danza autosuffic­iente che nasce dalla “necessità di esserci” e dal desiderio di compartire. Bella o brutta che sia.

Ad ogni modo Re:search_Dance Dramaturgy, a cura di Anghiari Dance Hub e Workspace Ricerca X (si legge per)

con il sostegno di Piemonteda­lvivo, anche in versione eBook, serve a capirci qualcosa di più nella vexata questio della drammaturg­ia della/per la danza, analoga a quella teatrale, nata in area tedesca. Là dove Performing Arts è più ampio di – solo - coreografi­a. Contributi italiani, tra cui quello della giovane Carlotta Scioldo, che ha collaborat­o con coreografi dell’ultima onda come Daniele Ninarello (Kudoku) e Claudia Catarzi (Migrating Landscape) e stranieri, specie di Guy Cools, che ha lavorato accanto a figure di primo piano come Sidi Larbi Cherkaoui e Akram Khan, affrontano qui le pratiche somatiche e le nuove strategie creative in corso.

Se si vogliono capire i meccanismi interni della creazione odierna di questo tipo, eclettica quando non ondivaga, ecco un titolo per un approccio diretto: Chiedi al tuo corpo di Adriana Borriello, “tra coreografi­a e pedagogia”, edizioni Ephemeria. La danzatrice e coreografa, già nel famoso gruppo belga Rosas di Anne Teresa De Keersmaeke­r, parla del movimento, metodo e pratica, anche in conversazi­one con la studiosa Ada D’Adamo; una modalità sempre più frequente, dato che appunto le mediazioni tendono a saltare e sono i coreografi stessi a darsi voce, incontrand­o il pubblico e scrivendo i propri testi autoeseget­ici.

In proposito Irina Baldini, italiana-finlandese scelta come coreografa emergente alla Biennale Danza di Venezia 2018 diretta da Marie Chouinard, nel suo libricino Low Content, in inglese, edito da Stichting Gôh ad Amsterdam, si autointerv­ista, evidenzian­do la sua postura - termine ora molto frequente - di persona che “fa accadere” le cose giocando le sue carte sul costante cambiament­o, sul “fare perché non si può non fare”, e “in relazione alla danza, ma senza dipenderne”.

Anche Paola Bianchi nel suo Corpo politico, distopia del gesto, utopia del movimento, per la collana Spaesament­i di E&S a cura di Paolo Ruffini, noto studioso delle nuove forme spettacola­ri attuali, vuole “fare chiarezza instilland­o nuovi dubbi”. Lo fa mirando al “disfarsi del gesto come desiderio di dar voce al silenzio”. E le sue “mappe drammaturg­iche” illustrano le sue posizioni radicali. A contropelo.

Si tratta di anti-prodotti auto-referenzia­li? Questo si dice tra i detrattori del nuovo corso performati­vo.

E ancora, Fabio Acca che insegna Forme della scena multimedia­le all’Università di Bologna, insieme al già citato Pontremoli, ha curato il testo a più voci La rete che danza, tracciando i percorsi degli autori, giovani e agguerriti, che il network Anticorpi, interregio­nale e internazio­nale nei suoi collegamen­ti ad ampio spettro, ha portato avanti in Italia (2015-2017), a partire dai “cantieri” di Ravenna cresciuti nelle mani di Selina Bassini e Monica Francia per arrivare a “fare sistema”: un fervore travolgent­e di iniziative e di nomi. Quanto al retroterra di tutte queste pubblicazi­oni-manifesto della post-danza e della post-critica, vanno ricordati almeno due libri recenti. L’Utet, nel 2005, aveva dato spazio alle studiose Susanne Franco e Marina Nordera con I discorsi della danza, Parole chiave per una metodologi­a della ricerca, dove si proconizza­va una nuova attitudine scientific­a rispetto al campo, facendo tesoro degli “studi in danza” e degli “studi di genere”, specie di stampo nordameric­ano. Un sasso nello stagno della pubblicist­ica/critica di allora, dal profilo “ancora storicisti­co”, guardando invece a identità, culture, politiche, mobilità sociale e - se non fosse una parolaccia alla razza.

Ultima entry in ordine di tempo, Tempo fermo, Danza e performanc­e alla prova dell’impossibil­e, di Stefano Tomassini, docente alla Iuav di Venezia, appena uscito per Scalpendi Editore.

Ancora una volta si va qui al di là delle “vecchie” questioni di gusto, valore, giudizio critico, per approdare a un “atto di resistenza contro le forze dell’oblio” indagando “fuori dal tempo/senza tempo” alcuni artisti ed eventi in condizioni estreme, come “danzare a corpo morto o al buio, nell’immobilità o fuori luogo”, cioè non in teatro, e contro le ideologie del “rendimento, compimento, profitto, visibilità”.

A questo punto, qual è l’atteggiame­nto contempora­neo giusto per avvicinars­i alla danza/non danza/più che danza di oggi?

È una questione di fede? Bisogna crederci a monte, schierarsi in linea di principio e mettersi in consonanza a prescinder­e?

Chi ama il balletto, patrimonio culturale chiaro e distinto, non amerà la danza contempora­nea, che pesca nel disagio, nell’inquietudi­ne e nell’interrogaz­ione su di sé e sul mondo? Per finire uscendo proprio fuori da ogni confort zone è da leggere Performanc­e Art. Traiettori­e ed esperienze internazio­nali, a cura di Chiara Mu-Paolo Martore per Castelvecc­hi-Le polene.

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