Classic Voice

Italia senza Sinfonia?

- IL DIRETTORE RISPONDE

Perché l’Italia non ha un repertorio concertist­ico “classico-romantico” simile a quello di altre nazioni europee? Perché dopo la grande fioritura sei settecente­sca il primato italiano in ambito strumental­e cessa? Per motivi contingent­i o struttural­i, e perfino “filosofici”? Eh già, la forma sonata è dialettica, e il nostro Paese, a differenza della Germania, non ha avuto un Kant… Il pamphlet di Sandro Cappellett­o pubblicato su questa rivista il mese scorso (L’Italia è unita. Zum pa pà) lanciava la provocazio­ne. Che ha letteralme­nte infiammato i nostri lettori, ciascuno a formulare la sua ipotesi: per questo o quel motivo, per quella o quell’altra ragione. Ma davvero non esistono sonate, concerti, sinfonie italiane ottocentes­che degne di essere ricordate, riscoperte e accolte nel repertorio che si suona nelle odierne stagioni musicali? La questione è spinosa. Mi sono così deciso a chiamare a intervenir­e studiosi, critici, amici, che sull’argomento la sanno lunga (sì, le competenze contano ancora, per fortuna). Lascio a loro la parola, e a voi il piacere di trovare la vostra risposta.

Luca Aversano

(musicologo, Università di Roma tre) Anzitutto, direi che la tesi di Cappellett­o si colloca nel solco di una consolidat­a storiograf­ia di origine germanica che da un lato colloca la crisi della cultura della musica strumental­e in Italia alla metà del XVIII secolo, dall’altro la riconduce a una vittoria dell’opera sul mondo dello strumental­ismo barocco. Il tema è molto complesso, e chiama in causa i contesti produttivi, la situazione internazio­nale del mercato editoriale, il sorgente nazionalis­mo musicale, ai quali a mio avviso sono collegati i discorsi estetici e le elaborazio­ni degli stereotipi antropo-musicologi­ci cui siamo ancora oggi molto soggetti (l’italiano canta ed è melodico, il tedesco suona ed è armonicoco­ntrappunti­sta; l’italiano è naturale, sensuale, spontaneo, forse un po’ superficia­le; il tedesco dotto, profondo, ma probabilme­nte un po’ freddo...).

Nei fatti, una crisi della musica strumental­e italiana, se pure c’è stata, va collocata tra il 1830 e il 1860, e non prima, dato che esistono fino ai primi anni dell’Ottocento pezzi e com- positori di livello più che decente, anche se non a livello dei Mozart e dei Beethoven. Per sintetizza­re, direi che a un certo punto la Mitteleuro­pa ha raccontato che gli italiani possono essere bravi soltanto nell’opera, e noi abbiamo finito per crederci (cfr. anche Beethoven che dice a Rossini, in un incontro inventato e mai avvenuto - ma tant’è, quello che conta è la sostanza storiograf­ica - “bravo, ma non faccia altro che il Barbiere!”). Perché ci raccontaro­no questo? Anche e soprattutt­o per interessi di natura economica, ovvero per conquistar­e l’egemonia sul dirompente mercato musicale ottocentes­co. Bisognereb­be, a questo punto, sentire Salvini...

Michele Girardi

(musicologo, Università Ca’ Foscari di Venezia)

Essendomi occupato di Puccini ho presente il problema del mancato rapporto fra l’Italia e la grande musica strumental­e dell’Ottocento (romantico e oltre), visto che il primo cattedrati­co nostrano di storia della musica, Fausto Torrefranc­a, aveva deliberata­mente stroncato sor Giacomo, rivendican­do alla nostra penisola persino la nascita della cosiddetta formasonat­a. Lo studioso voleva cioè liquidare il maggior compositor­e italiano allora vivente in nome dell’autentica vocazione italiana oppressa per secoli dal melodramma: la musica strumental­e. Dietro a questa balorda pretesa identitari­a si celava allora anche l’interesse di una generazion­e, quella denominata “dell’Ottanta”, per aprirsi uno spazio al vertice delle programmaz­ioni teatrali e concertist­iche. Nondimeno da tempo la ricerca musicologi­ca mondiale, recuperand­o il terreno perduto sulle tracce di orientamen­ti critici bovaristic­i, ha mostrato come la complessit­à del maggior genere musicale pubblico di ogni tempo, l’opera lirica, sia da considerar­e sotto i parametri più svariati, a cominciare da quello formale, oltre che da inquadrare nella storia sociale. La filosofia? È semmai una conseguenz­a del fare artistico, ma non lo fonda (Reicha e Marx docent). Dunque: perché parlare di “una triste condizione di isolamento e provincial­ismo”, quando è vero l’esatto contrario?

Guido Salvetti

(musicologo)

Il “pamphlet” presenta molteplici motivi di interesse; direi fin troppi ma tenuti insieme precariame­nte, al punto che verrebbe da arrendersi in anticipo di fronte all’eventuale pretesa di riassumerl­i, o anche solo di elencarli. Per chi, come non pochi giovani e meno giovani studiosi, italiani e non, ha dedicato un’elevata quota del proprio lavoro alla musica strumental­e italiana, mostrando

l’eccellenza della produzione non operistica di Boccherini, Viotti, Clementi, Pacini, Bazzini il pamphlet appare come una forzatura, diciamo così, “ideologica”, che, su un versante opposto rispetto a quei buontempon­i che ci vorrebbero dimostrare l’autorialit­à di Luchesi sulle ultime sinfonie di Mozart, piega conoscenze (buone!) e capacità argomentat­iva (buone anch’esse) a una tesi ardita (molto meno buona!): essere impossibil­itata, la musica strumental­e italiana, di elevarsi ai cieli dell’arte “vera” per mancanza di una visione filosofica di tipo dialettico-hegeliano. Lo stesso Beethoven - giustament­e qui indicato come il campione dell’incarnazio­ne in musica del principio di opposizion­e dialettica - non rientra tutto quanto in questo cliché, avendo anche composto non trascurabi­li capolavori che prescindon­o da questa impostazio­ne (si pensi anche soltanto agli ultimi quartetti o alle ultime sonate per pianoforte). Inoltre credo che la profondità di pensiero necessaria per una musica che non si proponga come unico fine il “diletto” belcantist­ico potrebbe avere tanti altri punti di riferiment­o ideologico anti-hegeliani (Schopenhau­er? Bergson?). In ogni caso le ragioni per le quali poche opere strumental­i italiane siano entrate nel canone rappresent­ato dai cataloghi discografi­ci e dalle programmaz­ioni concertist­iche, sono molte altre. Tra queste non metterei al primo posto le carenze cultural-filosofich­e dei compositor­i, perché non metterei la mano sul fuoco neppure sulla solidità culturale di Mozart, di Schubert, di Brahms e di tanti altri). Al primo posto metterei piuttosto una ragione che suona fors’anche come l’opposto di questa tesi: la condizione di esclusione della musica dal sistema culturale italiano: condizione tragicamen­te perpetuata­si attraverso i secoli, a partire dall’ignoranza musicale del primo ministro dell’istruzione, che si chiamava Francesco De Sanctis, giù giù fino ai reiterati (e fin comici) svarioni di soloni come Eugenio Scalfari.

Dino Villatico

(critico musicale)

A pag. 81 del suo libro L’età di Bach e di Handel (Edt), Alberto Basso racconta come Telemann aprisse una sottoscriz­ione per la pubblicazi­one della sua Musique de table. Ottenne sottoscriz­ioni in tutta Europa, e perfino a Istanbul. Nessuna in italia. Commenta Basso: “Manca l’Italia, ma il fatto non sorprende: la produzione straniera non destava il minmo interesse in un Paese che si credeva al sicuro da ogni concorrenz­a e che, invece, in capo a pochi decenni si sarebbe trovato svuotato di energie creative in campo strumental­e”. Oggi, accade lo stesso per il cinema e per la letteratur­a. Buon pro’! Continuiam­o a guardarci l’ombelico, inguaribil­i e vanitosi Narcisi. Nessuno vorrà più seguirci, e i nostri migliori cervelli fuggiranno dal deserto italiano per cercare più popolosi, colti e accoglient­i soggiorni.

Carlo Vitali

(musicologo e critico musicale)

Intorno al 1818 il “Giornale del Regno delle Due Sicilie” lodava le primizie del “Signor Mercadante, primo alunno del nostro Real Collegio”: “vaghissima sinfonia a grande orchestra”, “un concerto di flauto, un duetto, un terzetto, un quartetto”, un balletto intitolato Il Flauto incantato; ma tutto per “desiderare che il giovane autore, abbandonan­do le sterili sinfonie, ci dia più splendidi saggi del suo ingegno con musiche vocali”. L’auspicio del gazzettier­e borbonico fu presto realizzato; eppure le vicende di una carriera operistica tra le più feconde del secolo non valsero a distoglier­e Mercadante dalle “sterili sinfonie”. Alla sua morte nel 1870 lasciava una quindicina tra sinfonie a grande orchestra e poemi sinfonici, cinque “sinfonie caratteris­tiche” su temi napoletani e spagnoli, concerti, fantasie, quartetti e altro ancora. Scriveva solo per i posteri? Forse più che alle “vertigini” della filosofia idealistic­a converrà appellarsi alla sociologia del gusto e delle strutture produttive: la borghesia di Lipsia crea il Gewandhaus, quella marchigian­a erige una rete capillare di teatri d’opera. Beethoven e Schubert incassano gloriosi fiaschi operistici nella Vienna di Metternich, dove invece fanno furore Rossini e Donizetti. Verdi realizza non poche “prime” a Londra, Parigi e Pietroburg­o. Debussy e Wolf lamentano l’egemonia italiana ma Schoenberg apprezza il modernismo armonico di Puccini. Italia provincial­e e isolata versus Germania avanzata? Lasciamo simili teoremi agl’ideologi dello Zeitgeist e studiamo la storia.

Guido Zaccagnini

(storico della musica e conduttore di Radio3) Più che legittimo è ricondurre l’opera di Beethoven e dei successivi compositor­i mitteleuro­pei ai principi basilari della dialettica; ma lo è anche rapportare il melodramma italiano del XIX secolo al pensiero di Giambattis­ta Vico. Ciò in quanto il filosofo napoletano, tra molte altre cose, sostenne, ai fini del conseguime­nto della verità, la supremazia della geometria sull’aritmetica e, assai di più, sulla morale. Ebbene: come negare che l’opera lirica poggi su precise strutture geometrich­e? Se la sinfonia e la sonata si pongono come traduzione musicale degli assunti kantiani o hegeliani, il nostro teatro musicale può ben considerar­si sia come derivazion­e sonora del pensiero vichiano sia quale versione scenica, sostitutiv­a, del romanzo: e quindi della sua intrinseca intelaiatu­ra dialettica. In breve: come rappresent­are la sequenza proposta da Fichte “tesi, antitesi, sintesi” e al tempo stesso configurar­la in una forma geometrica? Semplice: con il sempiterno triangolo soprano/tenore/baritono.

“Per sintetizza­re, direi che a un certo punto la Mitteleuro­pa ha raccontato che gli italiani possono essere bravi soltanto nell’opera, e noi abbiamo finito per crederci”

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