Cherstich e i video di AES+F in Turandot
Palermo apre con “Turandot” di Puccini. Il progetto registico è di Fabio Cherstich con scene e video del collettivo russo AES+F, mai prima d’ora al servizio dell’opera
Turandot si conferma terreno congeniale per la ricerca di nuove possibilità teatrali, compresa la video-arte. Per l’apertura di stagione, il Teatro Massimo scommette sul progetto del regista Fabio Cherstich e del collettivo russo AES+F, sigla che racchiude da trent’anni l’esperienza di quattro artisti visivi esposti dal MoMA al Pompidou, provenienti dall’architettura, della grafica e della fotografia. Il loro linguaggio, al debutto nel mondo dell’opera, supporterà scene, video e costumi, aderendo a una poetica iper-realista e allegorica, influenzata dall’estetica del videoclip e dei videogame, del glamour pubblicitario e del fantasy cinematografico. Sul podio, per otto recite, c’è Gabriele Ferro. Tatiana Melnychenko è Turandot, Brian Jagde nei panni di Calaf, Liù è Valeria Sepe.
Cherstich, più che una regia lei firma un progetto.
“Non sarebbe possibile fare altrimenti. Non credo alle semplici messe in scena, come non credo che i registi possano fare qualsiasi titolo. Ed è sbagliato pure quando il progetto nasce solo dal titolo. In ballo c’era un’opera di Rameau. Quando abbiamo virato su Puccini, per questa Turandot ho espressamente voluto coinvolgere AES+F perché credo siano gli artisti più adatti a sviscerarne significati. Non portiamo in scena Turandot, ma un progetto Turandot”.
Con quali coordinate?
“Partiamo dal presupposto che è una favola. Ma è una favola globalizzata, scritta in persiano e poi adattata a orientalismi posticci. La nostra Turandot è nella Cina del futuro, multietnica, caratterizzata da un matriarcato digitale, con un esercito di robot fatti a sua immagine e somiglianza e un popolo che si ciba (vorrei dire si eccita) grazie alla violenza. Il sangue non è una nostra invenzione, è onnipresente in tutto il libretto, che ha aspetti terribili piuttosto espliciti”.
Anche la società del futuro è matriarcale?
“In Turandot vige il matriarcato perché lei ha tolto di mezzo il padre (che infatti vive in un polmone artificiale). In quest’opera c’è un grande problema di rapporti non risolti tra padri e figli. Vale anche per Calaf, che in fondo è un figlio ribelle. E non per caso si innamora di Turandot, che è simile a lui. Per comunicare i due si rivolgono enigmi, usano lo stesso codice. Sono due prepotenti che si sono trovati. E sotto di loro il corpo di Liù, che giacerà in scena fino alla fine”.
Come risolve il problema del finale dell’opera? Turandot si redime, diventa umana o resta ancorata alla sua natura di ghiaccio?
“Credo che il suo non sia un personaggio in senso dinamico. È la reazione degli altri attorno a lei che mi interessa. Lei era e rimane irrisolta. Del resto, a me non preme raccontare la morale dell’amore che redime. Qui stiamo parlando di rapporti conflittuali, di ferite del passato. Questa società matriarcale è il riflesso di un trauma che viene da lontano, più precisamente da uno stupro (‘un grido disperato risuonò’). E non c’è alcuna forzatura del libretto”. L.B.
Turandot di Giacomo Puccini Orchestra e Coro del Teatro Massimo
Dir. Gabriele Ferro. Regia di Fabio Cherstich. Scene video e costumi di AES+F
Palermo, Teatro Massimo, dal 19 al 27 gennaio