Un Do apocalittico
La sua Judit del 1953 con Fricsay rivela una vocalità sempre sontuosa. Ogni sillaba pare scolpita nel bronzo
A trentacinque anni Birgit Nilsson era un portento. Non che non lo sia rimasta in seguito, ma nel 1953 il fulgore di una voce già ultraterrena sposava ancora un candore tardo-adolescenziale. In quell’anno in Svezia di dava Il castello del Principe Barbablù per la prima volta. Svedesi cantanti e orchestra, quella della radio, ungherese il maestro. Fricsay era allora un giovane direttore in rampa di lancio e terrorizzava gli orchestrali; durante una prova ebbe un battibecco con un cornista e lo cacciò, poi, quando gli altri professori presero le parti del malcapitato, minacciò di andarsene. L’ira sbollì il giorno seguente. Per la Nilsson Il Castello del Principe Barbablù è uno “psychodrama”, un lungo recitativo accompagnato in cui succede poco o niente. Difficile darle ragione, o meglio può darsi che ce l’abbia se ci si ferma alla prima osteria. E lei un po’ lo fa. Vocalmente è una folgore e il Do della quinta porta è apocalittico. Ogni sillaba è scolpita nel bronzo, non c’è suono che le scappi via o che sia men che sontuoso, anche a costo di immolare sull’altare dello splendore la varietà di inflessioni e colori. E certo questo approccio al canto di conversazione qualche limite lo palesa. La sua Judit è una mogliettina mesta, quasi presaga di quel che la aspetta. Il confronto con lo spinoso Barbablù di Bernhard Sönnerstedt è indicativo. Svedese anch’esso, ha una vocazione maggiore per il sussurro e lo scavo e potrebbe ricordare per ricerca delle sonorità, pur con qualche ruvidezza in più, alcuni epigoni della scuola bassbaritonale svedese, da Wixell fino a Mattei. Il meglio arriva da Ferenc Fricsay che li avvolge in una coperta ombrosa, dando agio a un canto più espressionista in lui, più lirico in lei, ma sempre libero nel ritmo e nelle dinamiche. Tra sonorità ovattate e risacche di furore l’opera pare svilupparsi come una lunga ninnananna, ipnotica, fatale.
P.L.