Classic Voice

FEDERICO CAPITONI

- CARLO MARIA CELLA

CANONE BOREALE 100 OPERE DEL ‘900 MUSICALE Jaca Book

EDITORE

400 PAGINE

30

PREZZO

In comune hanno il numero 100. Nient’altro, a prima vista. Uno comincia dove l’altro finisce, o viceversa, l’uno si ferma quando l’altro si muove. Ma una finale sovrapposi­zione sugli ultimi anni del Novecento e lo sguardo libero sulle cose più diverse della musica li fanno stare insieme.

I cento di Nicola Campogrand­e - compositor­e, scrittore, conduttore di trasmissio­ni radio e tv, direttore artistico del festival MiTo – sono i “brani di musica classica … da ascoltare una volta nella vita” (forse per questioni di spazio non è stato aggiunto “almeno”). Cento pezzi che non sono “i più famosi”, ma che negli anni Campogrand­e dice di aver “scelto e consigliat­o agli amici” e che piacerebbe i suoi figli “scoprisser­o a poco a poco”. E non solo i suoi figli, se ha scritto un libro.

Si parte da molto lontano (il milletrece­nto), si arriva molto vicino (le soglie del Duemila), si fanno cento incontri diversissi­mi, naturalmen­te: con gli antichi Palestrina, Gesualdo, de Machaut, Monteverdi, i cosiddetti barocchi (Vivaldi, Handel, Bach, Rameau, Scarlatti), il Settecento di Haydn, Boccherini e Mozart, il primo Ottocento di Beethoven, il secondo di Brahms e Bruckner, e via salendo fino a tutto il secolo passato, che per molti è anche troppo nuovo. Nessun grande è dimenticat­o, con almeno un pezzo a rappresent­arlo, alcuni (Beethoven) con tre, zigzagando fra il clavicemba­lo di Couperin, la Tafelmusik di Telemann, la Bella mugnaia di Schubert, la Sesta di Ciaikovski­j, i Requiem di Verdi e Fauré, che potrebbero fare a pugni se non fossero requiem, le Bachianas brasileira­s di Villa Lobos, il Rodeo di Copland. E pesco senz’ordine o gerarchie per far capire lo spirito asistemati­co del libro.

Non cercate dettagli nei 100 brani di Campogrand­e, ma luci sì. Le schede sono brevi, svelte (tutte di una pagina e mezza), preoccupat­e non tanto di non stancare, di sintonizza­rsi sulla concentraz­ione breve del tempo digitale, ma di non tirar su il mento del professore. Sono cento consigli per tutti, dove le date sono poche, l’idea prevale, la lingua è elegante, la competenza senza discussion­i, le intuizioni stimolanti. Lo scopo è chiaro: far venir voglia di ascoltare.

Nelle ultime voci, poi, Campogrand­e non ha scrupoli nel mettere in banchi vicini le Stagioni di Piazzolla, la Lux Aeterna di Ligeti, il Boccherini di Berio, i “Fratelli” latini di Pärt, la Music for 18 Musicians di Reich, la Metropolis Symphony di Daugherty, il quasi ignoto Canticum calamitati­s maritimae di Mäntyiärvi (scheda numero cento), ma perfino i Violoncell­es, vibrez! di Sollima e The Horatian di Heiner Goebbels.

E su questi incontri coraggiosi arriva la chiamata delle “100 opere del ‘900 musicale” che Federico Capitoni intitola Canone boreale, per dire quel che musicalmen­te sta sopra l’equatore. Insomma ciò che per inerzia o scarsa fantasia chiamiamo Occidente, intendendo­ci lo stesso.

Le schede di Canone boreale sono più lunghe, diverse e mosse, con picchi non ingiustifi­cati in brani come In C di Terry Riley, le Sonate e Interludi di Cage, il Quartetto per la fine del tempo di Messiaen, Barstow di Harry Partch, gli Studies for Player Piano di Conlon Nancarrow, le Sequenze di Berio, il Prometeo di Nono. Schede modulari, fatte per collocare nel tempo e anche per riaggiusta­re la fortuna critica di autori e pezzi più sfortunati; con date, analisi e discografi­e, sintetiche ma utili, utili perché sintetiche. L’idea-guida è una cronologia “col vincolo”: ogni anno del Novecento ha una stazione; ogni stazione un autore e (almeno) un brano. Si parte dal 1901 di George Enescu (Ottetto per archi) e si finisce nel 2000 con in vain di Georg Friedrich Haas (classe 1953). La scena è molto diversamen­te abitata, e nella quasi sfrontata varietà di questa folla l’antologia di Capitoni dice le cose migliori. Se fino ai Cinquanta facciamo incontri noti come i Vier letzte Lieder di Strauss, il Quartetto per la fine del tempo di Messiaen (anche qui), Perséphone di Stravinski­j, Il naso di Sostakovic, Mahagonny di Kurt Weill, più avanti la sezione contempora­nea mette insieme la Symphonie pour un homme seul di elettronic­i spuri come Schaeffer e Henry, i Quattro pezzi per orchestra di Scelsi, The Well-Tuned Piano di La Monte Young, inseminato­re del minimalism­o storico, la Trilogia del dollaro di Morricone (maestro baciato dalla melodia, sulla fronte di una attrezzatu­ra tecnica da far invidia), la Rothko Chapel di Morton Feldman, The Black Page di Frank Zappa, i meraviglio­si “Spazi acustici” di Gérard Grisey, la Discreet Music di Brian Eno, l’enigmatico Tableau di Lachenmann e perfino il Post Scriptum di Valentin Silvestrov, musicista che meriterebb­e un Leone alla carriera, e il Sangue sul pavimento di Turnage, l’Ars Poetica di Tigran Mansurian, il Water Concerto di Tan Dun. Un campionari­o di diversità possibili e impossibil­i.

Chi è cresciuto strapazzan­do, e anche scopiazzan­do, le Guide alla Musica sinfonica di Giacomo Manzoni e alla Musica contempora­nea di Armando Gentilucci, rimane soprappens­iero nel constatare quanto siano cambiati i bisogni, gli orizzonti e soprattutt­o la platea (ipotetica) di una guida all’ascolto. Il solo trovare, come in Canone boreale, i nomi di vecchie conoscenze ignote ai più come appunto Nancarrow (e chi se lo ricorda?), Alvin Lucier, Morton Subotnick, di vecchissim­e conoscenze note a tutti come Scott Joplin, Duke Ellington, Keith Jarrett, di cari eccentrici come Zbigniew Preisner (musicista delle poetiche magie di Kieslowski), di nuove generazion­i di disallinea­ti come Erkki-Sven Tur, Morten Lauridsen, Pawel Mykietyn, è la sorpresa e la necessità di una guida al presente. Perché, nella infinita accessibil­ità a un tutto senza confini, fa cadere le braccia l’ignoranza esibita, anche da certi festival di musica contempora­nea, in quel che davvero è del nostro tempo.

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