GAY/PEPUSCH/CARSEN L’OPERA DEL MENDICANTE
DIRETTORE Florian Carré
ORCHESTRA Les Arts Florissants
REGIA Robert Carsen
TEATRO Coccia
★★★★★
“Due ore filate, senza intervallo: volano che sembrano un pugno di minuti, come solo riesce a una di quelle serate toccate dalla magia del teatro eccelso”
Partito dal parigino Théâtre des Bouffes du Nord (il teatro di Peter Brook), questo spettacolo ha girato mezza Francia ed è andato al festival di Edimburgo prima di giungere a Spoleto, passare dal Verdi di Pisa, per approdare infine al Coccia quale tassello oltremodo prestigioso d’una stagione lirica che a ogni anno si conferma tra le più vivaci.
1728: John Gay (pare su suggerimento di Jonathan Swift) scrive un testo di violenta satira politica diretto contro l’odiato ministro Walpole del partito whig, corrotto fino al midollo; e con la collaborazione di Johann Pepusch, al dialogo parlato alterna una sessantina di brani musicali scelti nel vastissimo patrimonio delle ballate popolari, con sapidi inserimenti di pezzi tratti dall’allora imperante opera seria di Handel, Bononcini e Purcell, ovviamente sostituendo i relativi versi. Nasce la Ballad Opera, gemella dell’opéra-comique, del Singspiel e dell’operetta nonché, per li rami, del musical. La partitura di Pepusch presenta solo il basso continuo: sicché – mai uscito questo titolo dal repertorio se non nella troppo puritana era vittoriana – le antiche ballate della Beggar’s opera hanno periodicamente conosciuto molteplici arrangiamenti e relative edizioni (la presente è opera di William Christie, primo direttore dello spettacolo), di conserva a testi sempre cangianti di epoca in epoca. Logico. La satira, perché funzioni, deve parlare a un pubblico contemporaneo. Oggi, i vetriolici riferimenti a situazioni e figure del governo Walpole ci direbbero poco, sicché Ian Burton e Robert Carsen hanno scritto un testo ad hoc: agilissimo e divertentissimo (i sovratitoli sono perfetti e consentono di seguire il test inglese senza problemi), con frecciate al curaro su situazioni contemporanee quali corruzioni, malgoverni, scandali finanziari o politici e quant’altro, nelle quali d’altronde cambiano le facce ma la sostanza resta analoga di epoca in epoca. Muro portante dell’intento satirico originale era contaminare il genere operistico - amatissimo dalla nobiltà - col dialogo e con la musica popolare: qui viene “tradotto” alla perfezione grazie alla presenza d’una delle formazioni più blasonate del barocco (i difatti favolosi Les Arts Florissants, molto casual in jeans sbrindellati capigliature punk e berrettini da baseball, guidati al cembalo da Florian Carré che non sarà Christie ma lo fa rimpiangere quasi niente) ad accompagnare un sensazionale gruppo di attori capaci anche di cantare e di ballare, must d’altronde d’ogni artista di teatro anglosassone. Un muro di scatole di cartone forma il fondale, potendosi scomporre a vista e formare camere da letto, forca, bar, prigione, mentre sulla sinistra stanno gli strumentisti: ad accompagnare, con aplomb formidabile e geniali improvvisazioni parajazzistiche (ennesima dimostrazione di quanto contemporanea possa essere la musica barocca se utilizzata in modo autenticamente teatrale), un’azione che scatenata è dir poco. Frenesia gestuale spinta al parossismo ma governata sempre con sovrano senso della misura e del timing scenico, dove canto e parola trapassano uno nell’altra e ritorno senza la minima soluzione di continuità, entrambi mantenendosi su altissimo livello; musicalità portentosa; coreografie (di Rebecca Howell) d’un virtuosismo acrobatico mozzafiato: teatro, teatro, teatro. I nomi del cast a noi dicono poco, ma compongono un ensemble quale nei nostri patri lidi non s’arriverebbe neppure a sognare: almeno il Macheath di Benjamin Purkiss va però citato, a fianco del Peachum di Robert Burt e delle scatenatissime Polly e Lucy, Kate Batter e Olivia Brereton. Due ore filate, senza intervallo: volano che sembrano un pugno di minuti, come solo riesce a una di quelle serate toccate dalla magia del teatro eccelso.