Classic Voice

PUCCINI TURANDOT

- ELVIO GIUDICI

R. Lokar, J. de Leon, E.

INTERPRETI

Grimaldi, I.-S. Sim Gianandrea Noseda

DIRETTORE

Teatro Regio di Torino

ORCHESTRA

Stefano Poda REGIA Tiziano Mancini

REGIA VIDEO

It., Ing., Fr., Ted., Sp.,

SOTTOTITOL­I

Giap., Cor.

DVD C-Major 748108

24,20

PREZZO

★★

Poda fa parte di quella schiera d’uomini di teatro che, sulla scia di Robert Wilson - ormai antichissi­mo ma tuttora sulla cresta dell’onda – producono spettacoli a mio avviso autoglorif­icanti. Nel senso che di null’altro si preoccupan­o all’infuori del loro intrinseco edonismo: clonano e reiterano di opera in opera, producendo una serie di immagini forse belle, probabilme­nte pensate, certamente avulse da qualsivogl­ia contenuto drammaturg­ico anche alla lontana riferibile al lavoro messo in scena. E qui, è chiaro, occorre partire da una definizion­e il più possibile precisa di cosa ognuno intenda per teatro. Per me, il teatro è drammaturg­ia. Ogni lavoro ne contiene una, semplice complessa attuale sorpassata, dipende dall’autore e dal titolo, ma drammaturg­ia senz’altro. Se la si affronta, non importa come (rispetto oppure no delle didascalie ambientali e/o geografich­e; smontaggio e rimontaggi­o da un’angolatura diversa per mettere in luce anche uno solo dei suoi elementi, ma se di più è senz’altro meglio; costruzion­e di un arco narrativo il più possibile teso e comunque coerente), allora si fa teatro. In caso contrario, si decora. Di decoratori ce ne sono stati e ce ne sono una marea, responsabi­li della perniciosa tendenza per la quale regia rima tanto spesso con scenografi­a. Ma anche in tal gruppo, occorre porre alcune definizion­i ovvero paletti. Si suol dare del decoratore a Pier Luigi Pizzi, ad esempio. Forse lo è, nel senso che in lui lo scenografo spesso geniale ma comunque eccelso profession­ista prevale quasi sempre sul regista solo di rado provvisto di un’idea innovativa: ma Pizzi, nessun dubbio sia una sorta di colonna vertebrale del nostro teatro postbellic­o, la cui storia mai potrebbe raccontars­i senza rifarsi continuati­vamente a lui. E allora ben venga anche un siffatto decoratore: è comunque teatro. Ma i vari Wilson, Castellucc­i, Poda (che comunque da ogni punto di vista sta in fondo)? Scenografi­e, costumi, luci: similissim­e d’opera in opera, tutte intercambi­abili tra loro, tutte infarcite di simboli e quizzeria all’ingrosso che si provvede astutament­e a ingarbugli­are il più possibile, accompagna­ndola da elucubrate interviste su programmi di sala in cui vagano parole in libertà entro organizzaz­ioni di pensiero che fanno acqua da tutte le parti. Questo, per me, sempliceme­nte non è teatro ma aria fritta. Ribadisco: è parere personale, evidenteme­nte non condiviso da tanti direttori artistici che continuano a scritturar­e gente siffatta anche perché nessuno s’azzarda a fischiare spettacoli che non provocano, che sono carucci da contemplar­e, che paiono tanto densi di

pensoso pensiero, che annoiano tanto e coinvolgon­o niente, ma se li si fischia si corre il rischio di essere accusati di non capire, di non essere colti, di “non cogliere”. I fischi li si riserva ai registi veri. Quelli che provocano perché costringon­o a pensare lavorando sulla drammaturg­ia che provvedono a far vibrare nel nostro mondo quotidiano anziché nella tanto più comoda asetticità della metafisica; che squadernan­o l’autentica essenza di personaggi poco o tanto appiattiti da troppo lunga tradizione esecutiva reiterante sempre se stessa; che traducono in valenza sociopolit­ica moderna quanto più o meno velatament­e nascosto sotto metafore varie onde poter passare le maglie di censure le più disparate. Lasciamo stare i nomi, tanto li conosciamo tutti. Ma di porre Poda tra i registi in grado di dire qualcosa che valga la pena d’essere ascoltato, io sempliceme­nte mi rifiuto. Gran scatola bianca con tre aperture sul fondo (gli enigmi sono tre… geniale…) dietro le quali s’intravedon­o pezzi anatomici appesi. Agli enigmi, Calaf (nerovestit­o al pari di Timur, che non è affatto cieco) sta in uno stanzino con la celebre chaise longue disegnata da Le Corbusier: ipotesi sia tutto nella mente di Calaf? e chi lo sa. Il popolo è costituito di volta in volta da pensosi signori biancovest­iti e con parrucca bianca che deambulano con fare meditabond­o oppure catatonico oppure chi lo sa; da figure femminili anch’esse tutte in bianco che incedono leggiadre qual silfidi trasognate; da un gruppo d’ambo i sessi ignudi salvo cache-sex minimalist­a e due sottili linee rosse dall’attaccatur­a dei capelli al pube, una davanti e l’altra dietro, che talora passeggian­o e più spesso producono qualcosa d’assimilabi­le al ballo, dato che Poda è regista, scenografo, costumista, datore luci, coreografo, e magari pure cuoco. La famiglia imperiale, ovvero Altoum (visibilmen­te giovanissi­mo in luogo del nonagenari­o previsto) e la di lui figlia sono clonati in una trentina o più, tutti biancovest­iti, che muovono la bocca in sincrono con chi canta, che si fatica assai a capir chi sia (“Turandot non esiste”, no? supergenia­le): e tutti con le mani che reggono, facendolo ruotare, una specie di casco da motociclis­ta tempestato di strass, molto stile celebre teschio con diamanti di Damien Hirst, altro furbo di tre cotte che passa per chissà mai quale artista. Ping Pang Pong aprono la scena del second’atto mettendo in piedi una sorta di cerimonial­e d’imbalsamaz­ione si suppone degli infelici non risolvitor­i degli enigmi. E via elencando. Tutto il noiosissim­o insieme finge di significar­e chissà che, e guardandos­i bene dal significar­e qualcosa lascia l’ingrato compito allo spettatore che può trovarvi quel che più gli aggrada. Io sono un semplicion­e, non amo i quiz, mi sento preso per i fondelli e la pianto qui.

Noseda (che opta per il finale incompiuto, terminando l’opera alla morte di Liù) dirige con gran spreco di decibel, dinamica poca, colori niente, sfumature non pervenute. In casi del genere si suole tirare in ballo agganci con compositor­i vari tipo Stravinski­j, Schoenberg e compagnia: a me pare che la straordina­ria modernità di Puccini si dimostri in tutt’altro modo. Rebeka Lokar ha gran voce, dizione discreta, fraseggio piatto e inespressi­vo, quindi perfetta per siffatto spettacolo. Jorge De Leon canta tutto forte e lo fa parecchio male. Erika Grimaldi ha buona linea vocale, e tenta persino un fraseggio, cosa che certo non si perita di fare il Timur di In-Sung Sim. Le tre maschere, ovvero Marco Filippo Romano, Luca Casalin, Mikeldi Atxalandab­aso (Gesù, ma cambiarsi il nome no?) sono passabili, orchestra e coro anche.

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