MOZART DON GIOVANNI
INTERPRETI S. Alberghini, S. Kocan, F. Lombardi, P. Fanale, S. Jicia, V. Priante, R. Lorenzi, L. Bini
DIRETTORE Michele Mariotti
REGIA Jean-François Sivadier
TEATRO Comunale
★★/★★★
“Gli ammiccamenti a majas e manolos di prima maniera goyesca mal si sposano a comparse ambosessi sbarcate dalla movida tossica. Spinello libero e marchette: oh, che nuova drammaturgia!”
Annunciato in diretta facebook dal luglio scorso, il divorzio della signora Mariotti nata Peretyatko dal ruolo di Donn’Anna non ha guastato la festa d’addio che il suo consorte aveva preparato al pubblico bolognese, visto che il rimpiazzo Federica Lombardi si è rivelata più che all’altezza con colore pastoso e presenza fisica prorompente. Né a precipitare un disastro in chiusura di stagione è bastata la regia di Jean-François Sivadier, qui importata in coproduzione dal festival di Aix 2017 e già circolata in alcuni minori teatri transalpini. Una grezzata da rottamare quanto prima, poiché il suo confuso impianto metateatrale è un catalogo leporelliano di tutti i manierismi più rétro: babau, caramogi e Doppelgänger a iosa, lenzuoloni di lamé, stuoli di lampadine pendenti, un sordido muro cementizio uso baraccone off-off-Broadway. E nel finale éccoti una minacciosa epifania del Dissoluto semivivo in figura Christi, crocifisso in mutande sullo sfondo di un attaccapanni a forma di T che integra il fatidico tag “Libertà” (viva la) pennellato in vernice rossa; giusto per dar ragione alla Santa senese dottoressa della Chiesa quando parlava di “màrtiri del Dimonio”. Roba da far rimpiangere il Carsen scaligero 2011 che almeno largheggiava di pompe scenografiche e sartoriali, mentre qui gli ammiccamenti a majas e manolos di prima maniera goyesca mal si sposano a comparse ambosessi sbarcate dalla movida tossica. Spinello libero e marchette: oh, che nuova drammaturgia!
A supplirne le carenze è stata una volta di più il direttore uscente, ma debuttante nel titolo: lettura per certi versi “filologica” nell’accompagnamento e nella pronuncia dei recitativi, e per altri contesa fra émpito agogico, dissezione analitica del tessuto orchestrale e morosi assaporamenti di clima notturno che sbilanciano verso il nero l’equilibrio di un’enigmatica tragedia semiseria. Approccio pre o postromantico? No, piuttosto neobarocco e strutturalista con minime tracce di tradizione; una scelta che Mariotti, intervistato da Luca Baccolini, teorizza intrepidamente nelle note di sala. Nei rapinosi concertati “Traditore, traditore!” e “Mille torbidi pensieri”, anticipazioni di rossiniana folie organisée mostravano la salda coesione di un cast dove, accanto alla sullodata Lombardi, torreggiavano il Leporello di Vito Priante e la
Zerlina di Lavinia Bini. Bene anche Simone Alberghini nel ruolo titolare, mentre Salome Jicia (Donna Elvira) avrebbe colore e vocazione da belcantista se solo riuscisse a domare certi acuti esplosivi e un vibratino perenne che meglio si addice ad altro repertorio. Un Don Ottavio più testosteronico della vulgata salisburghese, molto alla Rockwell Blake, quello di Paolo Fanale; il giovane Roberto Lorenzi (Masetto) convinceva per ruvido piglio plebeo ma dovrà ancora raffinare la dizione. Stefan Kocan, già Masetto scaligero, ha guadagnato non poco in smalto vocale e attoriale dopo la riconversione a Commendatore. Applausi a scena aperta per tutti da un pubblico mediamente ringiovanito; mugugni e rimpianti vocalizzati senza ritegno nel foyer.