JANÁCEK KATA KABANOVA
INTERPRETI P. Vykopalová, M. Didyk, L. Ludha, G. Benacková, S. Kovnir, L. Belkina, P. Antognetti
DIRETTORE Juraj Valcuha
REGIA Willy Decker TEATRO San Carlo ★★★★★
“E così Willy Decker, in questo allestimento amburghese inspiegabilmente mai approdato in Italia nonostante tre lustri buoni di vita, ricostruisce la vicenda della tragedia domestica di Janácek sull’immagine di un volo tentato, ma impossibile”
Alla povera Katia non riesce neppure di attaccare al muro i suoi infantili disegni di gabbiani, proiezione dei sogni, troppo deboli per rimanere incollati sulle pareti di legno che la circondano. Per lei, che ricorda sé stessa come “un passerotto gaio”, non c’è altra immedesimazione possibile se non nel volo degli uccelli. E così Willy Decker, in questo allestimento amburghese inspiegabilmente mai approdato in Italia nonostante tre lustri buoni di vita, ricostruisce la vicenda della tragedia domestica di Janacek sull’immagine di un volo tentato, ma impossibile. Scena scabra, quasi inesistente, eppure di potente evocazione:
il palcoscenico è una camera oscura di pareti di legno che come un obiettivo fotografico si stringono e si allargano, a significare sia l’oppressione della spietata Kabanicha, la madre del marito di Katia, sia gli illusori attimi di libertà, conquistati a costo dell’adulterio. Ancora una volta, dunque, la conferma che la sottrazione non solo aiuta l’occhio, ma può rendere memorabile una regia. Eliminando quasi completamente gli elementi di scena, Decker si serve essenzialmente della forza intrinseca e reciproca dei personaggi. E fa concludere ciascuno dei tre atti con lo stesso faccia a faccia Katia vs Kabanicha, il binario drammatico che anima la vicenda, dove Katia è ovviamente l’oppresso e la suocera l’oppressore. Nell’ultimo atto, il confronto è ovviamente con un cadavere. Quasi secondari, rispetto a questo gioco di forze, appaiono i personaggi a contorno, dallo smidollato Tichon, il figlio succube della Kabanisha ben rappresentato da Ludovit Ludha, a Varvara, l’amica geniale che riesce in ciò che Katia non riuscirà mai: godersi almeno un po’ la vita (Lena Belkina). Anche Boris, l’amante occasionale di Katia (Misha Didyk), ci appare giustamente quasi accessorio, perché la sua insignificanza non è mai in grado di dare sostegno e slancio al decollo della disgraziata (insignificanza tuttavia non vocale). Così Decker non indugia mai sulla possibile alternativa della protagonista, non ci fa intuire e nemmeno sospettare che ci sia una via di fuga, rappresentata da un amante premuroso ma vigliacco. È questo, ci dice, a rendere davvero inevitabile il gesto finale di Katia, che cerca il volo nel vuoto quando capisce di non avere chances né col marito, che pure l’avrebbe perdonata, né con l’amante, né tantomeno con la irriducibile Kabanicha (Gabriela Benacková). Sulla “caduta” finale resta aperta una domanda: Janácek opta per una morte poco spettacolare (l’annegamento nel Volga), silenziosa come è stata tutta la vita della disgraziata; Decker sceglie invece una soluzione più acrobatica, con un volo nel vuoto che ricorda più Tosca, che non il tentativo di emulare gli agognati uccelli. Ad ogni modo, per la tensione drammatica costruita fino a quel momento, non era pensabile una diversa uscita di
scena. Facilmente si potrebbe elogiare lo slovacco Juraj Valcuha per aver saputo dar voce al “suo” repertorio. Ma così si rischierebbe di liquidare in fretta la sua visione profondamente sinfonica e fluida della materia orchestrale: non che nella sua lettura manchino gli scatti, i singulti, le pulsazioni ritmiche, ma tutto è ricondotto a una visione densa e larga, che non indugia sui motivi autoctoni e rende questa Kabanova un’opera europea del Novecento, come è nei fatti, anziché un prodotto teatrale idiomatico da sagra paesana. A questo ha contribuito un cast “montato” perfettamente dalla voce di Katia (Pavla Vykopalová) in giù, anche nelle componenti extra-slave, come la voce nobile di Paolo Antognetti, che interpretava Vana Kudrjas, l’amante di Varvara. Peccato che per questo capolavoro ci siano stati a disposizione solo cinque giorni di calendario a ridosso delle feste.