Orchestra in BIANCO e NERO
Due pianoforti al posto della compagine sinfonica. Per contrastare i colori romantici e wagneriani, Debussy destina le sue “partiture” alla doppia tastiera pianistica. Scavando nel loro potenziale interiore e simbolico. Come i grigi di Velázquez
“La musica moderna si sveglia nell’Après-midi d’un faune”: così affermava Pierre Boulez, sottolineando il “respiro nuovo” dell’arte musicale debussiana, la forma “liberata dalle costrizioni impersonali dello schema”, che dà “libero corso a un’espressività sciolta e mobile”. Per Boulez, l’Après-midi apre un’epoca, con il suo “potenziale di giovinezza che sfida l’esaurimento o la caducità”. Quasi all’opposto si situa la lettura di Vladimir Jankélévitch, che vide nel Mezzogiorno debussiano un’ora già inclinata “verso il crepuscolo”: il sole al suo culmine è il momento in cui tutto è perfettamente in atto e, dunque, “non ci sono più possibili”, come nel crudele azzurro mallarmeano o nel mortale biancore dello Zarathustra.
Rivoluzionario o decadente? Debussy fu sia l’uno che l’altro.
“Invece che cercare di diffondere l’arte nel pubblico, propongo la fondazione di una società di esoterismo musicale”: questa idea, confidata all’amico Chausson, potrebbe farci pensare a un Debussy elitario e capofila di certa sprezzante avanguardia, ma dev’essere contestualizzata nella Francia a cavallo fra Ottocento e Novecento. La mistica wagneriana aveva invaso le terre galliche, divenendo ben presto una moda e una posa: per distaccarsene, Debussy aveva invocato, più che una rivoluzione, un ritorno alla chiarezza, all’eleganza e alla semplicità degli avi Couperin e Rameau. La reazione del francese contro le mode inseguite dal “gregge” è dunque tutt’altro che una tabula rasa della tradizione: al contrario, si potrebbe dire che ciò che lo disturbava era proprio la costrizione a essere “di tendenza”. Dove trovò una via liberatoria? Non solo nel culto degli antichi, ma anche nei suoni provenienti da Oriente, che ebbe la ventura di ascoltare alla prima Esposizione Universale tenutasi a Parigi nel 1889, dove rimase incantato dalla musica di quegli “affascinanti piccoli popoli” il cui Conservatorio è “il ritmo eterno del mare, il vento fra le foglie, e i mille piccoli rumori che ascoltarono con cura, senza mai consultare arbitrari trattati”. Il gamelan, orchestra di strumenti musicali giavanesi, diede a Debussy lo stimolo decisivo per liberarsi dalle costrizioni di scuola in cui l’arte musicale rischiava di infognarsi. Dopo la prima esecuzione del Préude à l’après-midi d’un faune, avvenuta il 22 dicembre 1894 alla Société Nationale di Parigi sotto la bacchetta di Gustave Doret, un professore del Conservatorio disse che il Prélude era “una salsa senza lepre”: la centralità del timbro, e l’idea che le variazioni di colore fossero più importanti del motivo melodico “in sé”, venne percepita come una forma di vacuo decorativismo, laddove invece Debussy rendeva sostanziale ciò che fino ad allora era stato accessorio.
Sia Mallarmé sia Debussy affondano parole e note nella carne viva (“Le rapisco allacciate e volo a questa/ macchia, schivata dalla frivola ombra, / folta di rose che nel sole estenuano/ ogni profumo, dove sia il sollazzo/ nostro simile al giorno consumato”): e infatti, quando Pierre Monteux diresse il balletto con la coreografia di Nizinskij, Debussy chiese al direttore d’orchestra di suonare forte laddove in partitura era scritto forte, senza univocamente ricercare immateriali evanescenze. Ma alla fine del Prélude l’atto del piacere mostra la sua caducità, quell’angoscia meridiana che, come ricorda ancora Jankélévitch, Nizinskij rappresentò mimando il “coito con il Niente”. È il momento del terror panico, l’agonia di tutte le speranze. La versione per due pianoforti dello stesso Debussy (1895), che pubblichiamo nel cd del mese, dimostra come i colori evocati dall’orchestra non siano mai meri effetti, ma riflessi di un simbolismo che mantiene tutta la sua forza anche “in bianco e nero”.
Il ritorno a una sorta di purezza antica, anti-wagneriana, è ancora più evidente nelle Six Épigraphes antiques (1914-15), rimaneggiamento delle musiche di scena per le Chansons de Bilitis su testi di Pierre Louÿs (del 1900, per la formazione insolita di due flauti, due arpe e celesta). Siamo all’inizio della prima guerra mondiale, e Debussy – già malato – rivela in una lettera del luglio 1914 di aver avuto “l’intenzione, un tempo, di farne una suite d’orchestra, ma i tempi sono duri, e la vita mi è più dura ancora”. La versione per pianoforte a quattro mani non è però un ripiego: miracolosamente, Debussy riesce a evocare, attraverso una ricerca coloristica raffinatissima, il timbro dei flauti, i pizzicati dell’arpa, il tintinnio della celesta. L’atmosfera oscilla fra una levigatezza ellenistica ammantata di serenità e una sensuale malinconia decadente. Naturalmente si tratta di un’antichità apocrifa e idealizzata, rivissuta in una dimensione atemporale. L’alone generale di un tempo lontanissimo e misterioso è suggerito attraverso l’uso della modalità: la scala dorica, ad esempio, nel brano d’apertura, Pour invoquer Pan, dieu du vent. Già dal secondo numero, Pour un tombeau sans nom, ci rendiamo conto che la sublimata classicità è però tutt’altro che bucolica: al morbido motivo iniziale, che ricorda quello del fauno, segue una sorta di breve processione funebre e quindi un episodio che richiama il preludio Feuilles mortes.
Una grande libertà formale, che preannuncia il linguaggio delle Études,
caratterizza Pour que la nuit soit propice (con un uso raffinato della poliritmia) e Pour la danseuse aux crotales,
languida danza i cui motivi richiamano quelli di Mélisande. La lascivia dei melismi orientaleggianti domina nel quinto numero, Pour l’Égyptienne,
in cui il pianoforte sembra evocare le improvvisazioni dell’aulos. In netto contrasto, si ritorna a un clima di freschezza mattutina nell’ultima epigrafe, Pour remercier la pluie au matin. Ma ancora una volta, dietro alla scrittura vivace e brillante sembra celarsi un enigma: l’impressione che la purezza dell’antichità sia un’illusione, che nasconde l’eterno e doloroso mistero dell’esistere.
All’estate del 1915, passata sui bordi francesi della Manica, risalgono i tre capricci di En blanc et noir, che secondo il compositore “vogliono trarre il loro colore, la loro emozione, dal semplice pianoforte, come i ‘grigi’di Velázquez”. Debussy approfondisce l’apparente paradosso di una musica francese fino all’osso, e che trae ispirazione dalla purezza dello spirito classico, e di un linguaggio audacemente modernista. La poliritmia e la politonalità caratterizzano il primo capriccio, che porta in esergo una frase tratta dal libretto di Roméo et Juliette di Gounod: “Qui reste à sa place / Et ne danse pas / De quelque disgrâce / fait l’aveu tout bas” (“Chi resta al suo posto e non danza, confessa sottovoce qualche disgrazia”: Debussy si riferiva al fatto che, già colpito dalla malattia che l’avrebbe portato via nel 1918, non poteva essere d’aiuto alla Francia in guerra).
Che Debussy si facesse portavoce della propria patria attraverso la musica è evidente dal secondo brano, una “difesa della musica francese” dedicata al luogotenente Jacques Charlot, caduto in guerra, e definita dallo stesso compositore come pagina “molto spinta verso il nero” e tragica “quasi quanto un Capriccio di Goya”. Lo scontro fra Germania e Francia è evidente nell’opposizione di un corale luterano e di una luminosa melodia francese, che finisce per dominare, in un conclusivo “umile carillon” che “suona come una pre-Marsigliese”. L’ultimo capriccio, il più audace nella forma, è significativamente dedicato a Igor Stravinskij. Ancora una volta, Debussy omaggia la Francia fin dall’esergo, in cui cita un popolare rondel di Charles d’Orléans. Il virtuosismo di questo finale fa intuire la destinazione concertistica del trittico, ma Debussy è ben lungi dall’affidarsi a schemi convenzionali: il discorso, volubile e pieno di cesure improvvise, di accenti bruschi o di impalpabili suggestioni, fa pensare ancora una volta a quello che sarà il mondo delle Études.
Ben sappiamo quanto Debussy (ma anche Ravel o perfino John Cage) deve a Satie, benché Jankélévitch abbia sottolineato come il mondo debussiano sia piuttosto un universo del “mistero”, ben lontano dall’universo del “segreto” e dell’esoterico che caratterizzano Satie. Il rapporto fra i due fu abbastanza contrastato, ma il fatto che Debussy abbia trascritto per orchestra le Gymnopédies dimostra che senz’altro non disprezzava il collega. Tuttavia, i Trois Morceaux en forme de poire (Tre pezzi in forma di pera) nascono come boutade in risposta a un rimbrotto che Debussy aveva fatto a Satie, rimproverandogli la sua “mancanza di forma”. La risposta implicita di Satie? Certo che una forma c’è: ed è una forma di pera! Delizioso calembour che spalanca già le porte, nel lontano 1903, al mondo dadaista.