MAHLER SINFONIA N. 6
DIRETTORE Riccardo Chailly
ORCHESTRA Filarmonica della Scala
TEATRO alla Scala ★★★★/★★★
“Da una parte c’era il lavoro di Chailly su dettagli nascosti, in grado di illuminare zone orchestrali sempre tenute in ombra. Dall’altra un equilibrio orchestrale sbilanciato”
Ci vuole temerarietà a programmare nella stessa sala un’altra Seconda di Brahms dopo quella diretta lo scorso ottobre da Kirill Petrenko con l’orchestra dell’Opera bavarese. A maggior ragione visti gli esiti. Al Lac Lugano musica ha invece concesso il bis, questa volta con i Wiener Philharmoniker diretti da Michael Tilson Thomas. Ai programmi delle tournée internazionali, certo, non si comanda. E allora bisogna mettere in conto pure i confronti: se il finale di Petrenko era ebbro di musica, quello di Mtt, dipingeva paesaggi rassicuranti. Nell’uno la successione delle sezioni conclusive era animata da una eccitazione avvitante e volitiva, nell’altro appariva come un gentile, educato, sfogliare di margherite. E d’altra parte la Seconda non è sempre stata la “pastorale” delle sinfonie brahmsiane? Intendiamoci: Tilson Thomas è una grande direttore, e lo ha dimostrato nel Decoration Day dalla Holidays Symphony di Ives, restituito nella spaesante divisionismo timbrico, tutt’altro che celebrativo. Ma in Brahms era da ammirare più la sontuosità avvolgente dei Wiener che la capacità direttoriale di incidere nel loro corpo sonoro. La stessa cosa accadeva nel Terzo Concerto di Beethoven, offerto all’estrosa personalità pianistica di Igor Levit, notevole soprattutto in quelle cadenze “sorvolate” poeticamente sulla tastiera: zone ombreggiate, sospese, che s’insinuavano nella trama peraltro classica, scultorea, del Concerto in do minore come proiezioni sull’avvenire. Quella sensibilità trasognata e fervida che Schumann poi proverà a far rientrare nelle griglie del discorso sinfonico e che nella Seconda e Quarta dirette da Daniele Gatti con la Mahler Chamber Orchestra diventa un’instabilità sentimentale pervasiva. Non c’è nota, parte o intreccio in cui Florestano ed Eusebio - le due polarità espressive della poetica schumanniana - non si manifestino, in un caleidoscopio di accenti, umori e slanci irresistibile. Ed è la stessa imprevedibile logica emozionale a tenere il filo della narrazione vissuta - anche da noi ascoltatori - tutta d’un fiato: la forma, in quelle sinfonie schumanniane che sono percorsi dell’io d’artista, si giustifica nella coerenza e autenticità emotiva. Il miracolo avviene anche perché la Mahler - in tournée passando da Treviso, Ferrara, Brescia, oltre che al Valli di Reggio Emilia - suonava con eccezionale partecipazione individuale e disciplina collettiva in sale ideali per la sua vocazione “cameristica”. Peraltro proprio negli stessi giorni la Filarmonica della Scala - impegnata con Riccardo Chailly tra il Piermarini e i grandi auditori di Parigi, Madrid, Amsterdam, Dortmund - discuteva della necessità di una nuova sala adeguata alle sue ambizioni sinfoniche. E non c’è dubbio a sentire la Sesta di Mahler a Milano immaginandosi come sarà risuonata nelle grandi Philharmonie - che il problema esiste. Da una parte c’era infatti il lavoro di Chailly su dettagli nascosti, in grado di illuminare zone orchestrali sempre tenute in ombra: al direttore in Mahler le idee interpretative non mancano. Dall’altra un equilibrio orchestrale sbilanciato su ottoni e fiati, a fronte di archi “svuotati” di spessore. Colpa di un palcoscenico scaligero che non aiuta a sentire il “motore” orchestrale?