Se VERDI contrattacca
Fallisce il boicottaggio del “Nabucco” organizzato dal loggione. “Luisa” penalizzata dal suggestivo ma antiteatrale ex carcere di San Francesco
PARMA VERDI
I FOSCARI DUE V. Stoyanov, S. INTERPRETI Pop, M. Katzarava, G. Prestia Paolo Arrivabeni DIRETTORE Filarmonica ORCHESTRA Toscanini
Leo Muscato REGIA Regio TEATRO ★★/★★★
VERDI LUISA MILLER
INTERPRETI F. Dotto A. Lagha, F. Vassallo G. Sagona R. Zanellato DIRETTORE Roberto Abbado ORCHESTRA E CORO del Comunale di Bologna REGIA Lev Dodin
CHIESA San Francesco ★★★
VERDI NABUCCO
INTERPRETI A. Enkhbat S. Hernandez, M. Pertusi I. Magrì, A. Stroppa DIRETTORE Francesco Ivan Ciampa
ORCHESTRA Filarmonica Toscanini REGIA Ricci/Forte TEATRO Regio ★★★★
Dei tre i titoli di punta del Festival Verdi 2019, attira subito Luisa Miller, scelta per inaugurare lo spazio non “all’italiana” sostitutivo del Teatro Farnese, e individuato nell’ex-carcere nonché ex-(presto di nuovo) Chiesa di San Francesco al Prato ora in restauro. Navata e pareti foderate di impalcature (vere) intrecciano e inscatolano la lunga platea. Entrando, ci si emoziona pensando alle posizioni “carcerarie”, fisiche e spirituali dell’opera ma lo spazio è sfruttato come sala da opera-concerto stretta e profonda, in cui la vista è da binocolo e l’ascolto remoto. Luisa Miller è la partitura (forse) più sfuggente di Verdi. La concertazione sofisticata e scaltra di Roberto Abbado, condizionata dall’impermeabilità dello spettacolo alla drammaturgia d’autore, ha padroneggiato l’acustica grazie all’orecchio e al braccio esperto realizzando una lettura intelligente e lodevole. Non però definitiva come ci si aspetta dal/ al festival Verdi, l’edizione critica messa sui leggii esigeva e le voci (Francesca Dotto, Amadi Lagha, Franco Vassallo, Gabriele Sagona e Riccardo Zanellato) potevano sostenere. Disinteressato alla Miller, l’astuto spettacolo di Lev Dodin ha mostrato come comporre un rito teatrale di straordinario fascino - i “quadri” scenici giocati in uno spazio di palcoscenico vagamente elisabettiano, a rilevare la claustrofobia del luogo e dell’opera, immobilizzavano oratorialmente il coro (e i mimi) - ignorando la musica ma senza ostacolarla o sfidarla. Come nell’inquietante messa nera conclusiva (tutti i personaggi si avvelenano e muoiono sul lungo tavolo-banchetto delle mancate nozze) che sigla lo spettacolo. Perfezionando il dissanguamento affettivo e tragico delle scene precedenti: le immagini oniriche, spezzate e create dai tagli di luce e dal gioco di tavolati montati pezzo per pezzo, scena dopo scena, contenevano (nel significato di
accogliere e reprimere) gli smarginamenti affettivi e drammatici dei protagonisti.
I due Foscari hanno inaugurato il programma. Spettacolo calligrafico di Leo Muscato (scene di Andrea Belli ossessionate dal numero dieci, sipario e diorama con i dogi; di notevole efficacia evocativa e senza concessioni alla “venezianità”, in parte richiamata da alcuni costumi “hayeziani” di Silvia Aymonino), direzione musicale efficace di Paolo Arrivabeni. Sulla compagnia ha dominato con esuberanze non da “vecchio cuor” Vladimir Stoyanov, con Stefan Pop, Maria Katzarava e Giacomo Prestia. Qui la “verità” verdiana andava colta nei dettagli di recitazione, nel rispetto non didascalico delle didascalie, nelle suggestive immagini: scelta l’ambientazione mazzinian-verdiana, Muscato ha sottolineato ogni aggancio d’attualità della vicenda; rinunciando alle posizioni melodrammaticamente prevedibili e creando lo spazio d’attenzione ideale per la musica di questa partitura più “sperimentale” del coevo Ernani.
A metà tra la didascalia letta con occhi volutamente strabici e la ricreazione radicale, era Nabucco, palcoscenico per una locandina di voci importanti: Saioa Hernández, Amartuvshin Enkhbat, Michele Pertusi, Ivan Magrì e Annalisa Stroppa. Di grande qualità, raffinata e insieme rampante ma non scontata (nemmeno nel “Va, pensiero”) la direzione di Francesco Ivan Ciampa. Serata d’esordio punteggiata dalle patetiche rimostranze dei locali comitati di difesa dell’autore - il festival e la città meritano una tifoseria verdiana meno becera - concentrate negli “intermezzi”. Allusivi alla morte intellettuale (distruzione di libri sacri e politici) e fisica (disperati annegamenti in mare) erano tragici fotogrammi social del nostro tempo. Quella di Ricci Forte, alla loro terza occasione operistica, non è una visione che vuole illustrare, e non lascia indifferenti. Calata in una realtà distopica ma con riferimenti espliciti all’oggi, ambientata in una sorta di arca-sottomarino (scene di Nicolas Bovey) evoca una guerra per gli spazi vitali che rimanda a recinti spinati, gulag o stadi-prigioni collettive. L’ammasso di fluorescenti giubbotti di salvataggio, i reperti monumentali della nostra civiltà artistico-monumentale impacchettati a mo’ di sfondo al desolato “Va, pensiero”, il groviglioragnatela di funi che imprigiona il protagonista o il finale senza pietà né speranza sono immagini inquiete e forti da conservare. Al di là dell’accumulo di allusioni e di storie sotterranee intrecciate e subliminali, Ricci Forte raccontano proprio quel che Verdi aveva profeticamente messo in Nabucco ma di solito non si vuol vedere. Fedeli all’opera e alle sue ragioni drammaturgiche autentiche che, collocate nel dopodomani, si leggono meglio.