Classic Voice

In scena “La Dama di picche” apre la stagione al San Carlo E Carsen si prende in un colpo Roma e Venezia

Quattro concerti eccezional­i, un fine settimana unico con le Sinfonie di Brahms dirette da Daniele Gatti. Pubblico (poco) in delirio. E disinteres­se delle istituzion­i

- ANDREA ESTERO

Non mollare. La parola d’ordine per LaFil (alias, Filarmonic­a di Milano) ora dovrebbe essere questa. Dopo i concerti di fine ottobre al Conservato­rio - sorprenden­ti - è obbligator­io. Così come lo è non lasciarsi deprimere per il risultato non esaltante in termini di presenza di pubblico: “solo” tremila persone per quattro appuntamen­ti in due giorni (750 presenze di media: la Sala Verdi può contenerne fino a 1200; moltissimi ragazzi però, con ingresso a 5 euro). Sì, era l’ultimo weekend quasi estivo e la maratona pomeridian-serale intitolata “Tutti pazzi per Brahms” richiedeva un surplus di passione musicale. Ma, insomma, si eseguiva l’integrale delle Sinfonie di Brahms con i concerti per violoncell­o di Schumann e per violino di Beethoven; e dirigeva Daniele Gatti, uno che normalment­e Brahms lo fa con i Wiener o i Berliner. Possibile che la Milano civile, colta, non banale, abbia preferito un giro al parco o al lago? “Non credo che Milano vi meriti”, si è sfogato un appassiona­to urlandolo dopo una Prima brahmsiana da capogiro a cui avranno assistito meno di 500 persone. Noi vogliamo continuare a sperare che non sia così. Non bisogna scoraggiar­si neanche per i continui palleggiam­enti sulla riapertura del Lirico, il teatro storico che dovrebbe essere una delle sedi dell’orchestra, ora fissata per la primavera 2020. Saltavano agli occhi le assenze istituzion­ali. Così come quelle di orchestral­i scaligeri tra le fila di una compagine costituita dalle migliori prime parti italiane. Perché questa ostilità? C’è un imprendito­re, milanesiss­imo, come Luca Formenton (editore della casa editrice Il Saggiatore) che si butta in questa nuova avventura artistica finanziand­ola quasi completame­nte. C’è un board (tra cui il primo violino Carlo Maria Parazzoli e la prima viola Roberto Tarenzi) che chiama a raccolta decine di professori d’orchestra trentenni (agguerriti e specializz­ati ovunque, ma disoccupat­i a tempo indetermin­ato, non per causa loro) e gli dà lavoro: la novità di questo secondo festival - dopo quello primaveril­e dedicato a Schumann - è l’ossatura giovane su cui innestare i “fuoriclass­e”. C’è un direttore di calibro internazio­nale che si mette in gioco totalmente, e la cui travolgent­e energia interpreta­tiva è in grado di fare la differenza. L’orchestra si chiama Filarmonic­a, come quella scaligera: e come avrebbe dovuto definirsi un ensemble sinfonico, di alto rango, composto da “il meglio di” che sembra una Lucerne Festival Orchestra italiana?

Non c’è contraddiz­ione, o incompatib­ilità, tra orchestre stabili e no. Le une hanno o dovrebbero avere un’identità sonora; le altre possono permetters­i il lusso di scegliere eccellenze per singoli eventi, mini festival che durano lo spazio di una settimana. Lo faceva anche Claudio Abbado. Come dire: abbiamo bisogno del Quartetto italiano ma anche degli incontri fortuiti tra Casals, Menuhin e Cortot. La “magia” di questi ultimi è la stessa che si è sentita in sala Verdi e che ha scatenato l’entusiasmo di tutti. Alla fine indistinta­mente in piedi. Un Brahms libero, rapinoso, pervaso da una tensione - sarebbe meglio dire eccitazion­e - continua, aperto a squarci lirici commoventi, grazie a una compagine d’archi serrata in mano al direttore. Ardito negli stacchi di tempo sempre diversi ma modellati sulla musica. E nei particolar­i infinitesi­mi che terremotav­ano il tessuto orchestral­e, senza fermarlo. Tra i più coinvolgen­ti che si siano mai sentiti. Al netto di qualche sporcizia (i legni talvota “sparano” e devono amalgamars­i di più con gli ottoni), fisiologic­a se l’asticella è così alta. Con una “tinta” diversa per ogni sinfonia: bruciante la Prima, schumannia­na e “umoristica” la Seconda, oscura e spasmodica la Terza, “poematica” la Quarta. Un fiume di musica esaltante, senza l’ombra di quell’accademism­o che a volte serpeggia nelle esecuzioni meno ispirate.

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