In scena “La Dama di picche” apre la stagione al San Carlo E Carsen si prende in un colpo Roma e Venezia
Quattro concerti eccezionali, un fine settimana unico con le Sinfonie di Brahms dirette da Daniele Gatti. Pubblico (poco) in delirio. E disinteresse delle istituzioni
Non mollare. La parola d’ordine per LaFil (alias, Filarmonica di Milano) ora dovrebbe essere questa. Dopo i concerti di fine ottobre al Conservatorio - sorprendenti - è obbligatorio. Così come lo è non lasciarsi deprimere per il risultato non esaltante in termini di presenza di pubblico: “solo” tremila persone per quattro appuntamenti in due giorni (750 presenze di media: la Sala Verdi può contenerne fino a 1200; moltissimi ragazzi però, con ingresso a 5 euro). Sì, era l’ultimo weekend quasi estivo e la maratona pomeridian-serale intitolata “Tutti pazzi per Brahms” richiedeva un surplus di passione musicale. Ma, insomma, si eseguiva l’integrale delle Sinfonie di Brahms con i concerti per violoncello di Schumann e per violino di Beethoven; e dirigeva Daniele Gatti, uno che normalmente Brahms lo fa con i Wiener o i Berliner. Possibile che la Milano civile, colta, non banale, abbia preferito un giro al parco o al lago? “Non credo che Milano vi meriti”, si è sfogato un appassionato urlandolo dopo una Prima brahmsiana da capogiro a cui avranno assistito meno di 500 persone. Noi vogliamo continuare a sperare che non sia così. Non bisogna scoraggiarsi neanche per i continui palleggiamenti sulla riapertura del Lirico, il teatro storico che dovrebbe essere una delle sedi dell’orchestra, ora fissata per la primavera 2020. Saltavano agli occhi le assenze istituzionali. Così come quelle di orchestrali scaligeri tra le fila di una compagine costituita dalle migliori prime parti italiane. Perché questa ostilità? C’è un imprenditore, milanesissimo, come Luca Formenton (editore della casa editrice Il Saggiatore) che si butta in questa nuova avventura artistica finanziandola quasi completamente. C’è un board (tra cui il primo violino Carlo Maria Parazzoli e la prima viola Roberto Tarenzi) che chiama a raccolta decine di professori d’orchestra trentenni (agguerriti e specializzati ovunque, ma disoccupati a tempo indeterminato, non per causa loro) e gli dà lavoro: la novità di questo secondo festival - dopo quello primaverile dedicato a Schumann - è l’ossatura giovane su cui innestare i “fuoriclasse”. C’è un direttore di calibro internazionale che si mette in gioco totalmente, e la cui travolgente energia interpretativa è in grado di fare la differenza. L’orchestra si chiama Filarmonica, come quella scaligera: e come avrebbe dovuto definirsi un ensemble sinfonico, di alto rango, composto da “il meglio di” che sembra una Lucerne Festival Orchestra italiana?
Non c’è contraddizione, o incompatibilità, tra orchestre stabili e no. Le une hanno o dovrebbero avere un’identità sonora; le altre possono permettersi il lusso di scegliere eccellenze per singoli eventi, mini festival che durano lo spazio di una settimana. Lo faceva anche Claudio Abbado. Come dire: abbiamo bisogno del Quartetto italiano ma anche degli incontri fortuiti tra Casals, Menuhin e Cortot. La “magia” di questi ultimi è la stessa che si è sentita in sala Verdi e che ha scatenato l’entusiasmo di tutti. Alla fine indistintamente in piedi. Un Brahms libero, rapinoso, pervaso da una tensione - sarebbe meglio dire eccitazione - continua, aperto a squarci lirici commoventi, grazie a una compagine d’archi serrata in mano al direttore. Ardito negli stacchi di tempo sempre diversi ma modellati sulla musica. E nei particolari infinitesimi che terremotavano il tessuto orchestrale, senza fermarlo. Tra i più coinvolgenti che si siano mai sentiti. Al netto di qualche sporcizia (i legni talvota “sparano” e devono amalgamarsi di più con gli ottoni), fisiologica se l’asticella è così alta. Con una “tinta” diversa per ogni sinfonia: bruciante la Prima, schumanniana e “umoristica” la Seconda, oscura e spasmodica la Terza, “poematica” la Quarta. Un fiume di musica esaltante, senza l’ombra di quell’accademismo che a volte serpeggia nelle esecuzioni meno ispirate.