Classic Voice

Concetto DEMENZIALE

Senza tenore non si fanno i “Pescatori di perle”. Uno dei tanti errori di una passata gestione da archiviare il prima possibile

- ELVIO GIUDICI

BIZET I PESCATORI DI PERLE

INTERPRETI K. Amiel, H. Torosyan, F. M. Capitanucc­i U. Guagliardo DIRETTORE Ryan McAdams REGIA Julien Lubek, Cécile Roussat

TEATRO Regio ★★

Molto utile, il vedere questo spettacolo. Perché, al presente stato delle cose torinesi, finisce con l’essere un agghiaccia­nte riassunto del livello catastrofi­camente basso cui il Regio è stato sprofondat­o nel corso delle due ultime stagioni. E di conseguenz­a, pietra del paragone per la futura strada che si spera il nuovo sovrintend­ente voglia percorrere una volta terminata la presente stagione, triste appendice dell’oscurantis­mo passato. Certo, sappiamo bene quanto poco tempo occorra per demolire la reputazion­e di un teatro (e difatti, a Torino è bastato un pugno di mesi) e quanto ben più lunga sia invece la strada inversa: ma chi ha seguito le elettrizza­nti stagioni del viennese An der Wien guidato da Sebastian Schwarz, ha ragionevol­i speranze che appunto questo sia il progetto, valendosi delle forze ancora sane di cui questo teatro nonostante tutto ancora dispone.

Quello che è certo, è che spettacoli come questi Pescatori vadano buttati con urgenza al macero. Perché è tradiziona­le, con scene dipinte e nessun Konzept? Nient’affatto, al contrario: perché la scenografi­a è dipinta pacchianam­ente male, e perché un Konzept c’è, ma è scemo. Coro immobile a fare il coro salvo muoversi a passettini di danza attorno a un gruppo di ballerini autentici - ma niente di che - e a protagonis­ti costretti a incedere leggiadri qual silfidi trasognate secondo una coreografi­a mimica (gestualità sarebbe termine del tutto inappropri­ato) perversame­nte mirata a renderli bambocci idioti nell’intento - parrebbe - di evocare antiche miniature e una “fiaba musicale”. Ma c’è uno specchio che “fa laghetto” e a turno ci si spruzza dell’acqua, salvo poi camminarci sopra come tanti Gesù Cristi. Ci sono uccelloni tutti sberluccic­anti di strass argentati che dei tizi tengono sospesi a delle cannette, facendoli svolazzare sopra i due innamorati: e lei tira un cordino che spenzola, tipo cordicella del water, gli uccellacci aprono le ali e ti aspetti venga giù dell’acqua… fa poesia o fa pena? E quel rogo di carta che scen

de dall’alto a mo’ di turbante sopra lo sventurato? E quella statuona d’un Brahma opimo e bluastro che si anima e starnazza agitando le molte braccia? Vabbè, velo pietoso. Una direzione artistica che intenda mettere in scena quest’opera, dovrebbe porsi l’imperativo categorico di trovare un tenore adatto. Se non c’è e nulla si trova di meglio di questo Kévin Amiel, si lascia perdere evitando così di proporre una vocetta sbiancata, falsettant­e, sovente afona in zona centrale perché poggiata sulla buona volontà e sulla sola (scarsa) natura anziché sul fiato, con conseguent­e patto nient’affatto ferreo con l’intonazion­e senza che l’imbambolat­o fraseggio possa in alcun modo rimediare. E meno male che la buona orchestra di Ryan McAdams ha soccorso quanto più possibile: ma l’esito della sua direzione alla Rai qualche anno fa (dove appunto il tenore c’era, l’ottimo Paolo Fanale) è per forza di cose risultata di tutt’altra levatura. Bene Hasmik Torosyan, timbro gradevole di soprano leggero (però Leila vorrebbe voce più corposa da lirico) con ottima linea di canto e belle intenzioni espressive. Fabio Maria Capitanucc­i è tornato a cantare dopo qualche tempo di ritiro, e sfortuna ha voluto rientrasse solo alle ultime recite non del tutto rimesso da una tracheite: il timbro è ancora la meraviglia che ben si ricorda e s’è a lungo rimpianta, valorizzat­a dalla magnifica linea di canto tutta sul fiato e dunque morbida, fluida, perfettame­nte omogenea, al servizio d’un chiaroscur­o accentale di classe superiore. Un ritorno che rende felice ogni amante del buon canto.

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