Inchiesta di Paolo Locatelli e Mattia Palma Teatri rinati dalle ceneri: il Liceu a 20 anni dal rogo. E Venezia sogna il nuovo tempio barocco
Barcellona festeggia i vent’anni della riapertura del Liceu, sopravvissuto a due incendi e a un attentato anarchico. Viaggio alla scoperta delle riaperture eccellenti che hanno ridato slancio ai teatri europei
La speranza delude sempre, dice Turandot. In realtà qualche eccezione c’è. Ad esempio la speranza di rivedere in opera il Liceu di Barcellona dopo il rogo del 1994 lasciò ben poco sulle spine, tant’è che in un lustro il teatro era di nuovo aperto e funzionante, pronto a riaccogliere il pubblico proprio con Turandot. Da quel 1999 le molte cose sono cambiate. Nel mezzo c’è stata anche una crisi economica non facile, né per il teatro, nè per il paese, nè per la Catalogna, squassata dalle sommosse dei filo-separatisti, soprattutto a metà ottobre, dopo la condanna definitiva dei leader politici promotori del referendum sull’indipendenza del 2017. Per riallacciare i ponti con la storia e ribadire l’importanza di quella rinascita, quest’anno si è scelto di ripartire proprio dall’estremo capolavoro di Puccini, un ritorno al passato per guardare al futuro con una nuova produzione da grandi investimenti, affidata al “furista” Franc Aleu, per quello che è il teatro d’opera più glorioso di Spagna. Non se ne abbiano a male i madrileni, ma il Real ha una storia operistica relativamente recente, mentre il Palau de les Arts Reina Sofía di Valencia, dopo il fulgore dei primi (ricchissimi) anni con Maazel e Mehta, pare in cerca di una propria dimensione. Le peripezie catalane non sono un’eccezione in questo mondo, tutt’altro: quasi ogni teatro che abbia più di un secolo di storia alle spalle qualche momento buio l’ha attraversato. Nel caso del Liceu gli stop furono tre: due per incendio (1861 e 1994) e, nel mezzo, un attentato terroristico per mano di un anarchico il 7 novembre 1893, che causò venti morti e quaranta feriti. Il conto delle vittime poteva essere più drammatico: delle due bombe piazzate fortunatamente ne esplose solo una, ma quello restò il più
sanguinoso attentato su suolo europeo fino agli anni Venti del Novecento. Il rogo più recente, di origine accidentale, distrusse sala e palcoscenico, lasciando illesi i locali che guardano sulla Rambla, tra cui il meraviglioso salone degli specchi. La torre fece da camino, aspirando le fiamme verso il palcoscenico. Si decise di ricostruire il teatro “com’era e dov’era” – come si sarebbe detto e fatto di lì a poco anche a Venezia e, con lo stesso slogan, anche a Rimini col Teatro Galli, distrutto dalle bombe alleate nel 1943 e riaperto solo nel 2018 – ampliandone poi la parte invisibile: il circondario venne espropriato per fare spazio a una torre scenica che dagli abissi di Barcellona sale per 64 metri, oltre alle varie strutture di servizio, camerini inclusi. Parlando di teatri risorti dalle proprie ceneri il Liceu non costituisce un unicum. Dalla Fenice di Venezia che bruciò e rinacque due volte, entrambe come falso d’autore (l’attuale e precedente aspetto rococò è un’impostura ottocentesca, ad imitare uno stile passato), fino al Petruzzelli di Bari, che dal 1991 dovette attendere quasi vent’anni per rimostrarsi al pubblico. O ancora il Regio di Torino, anch’esso risorto dalle fiamme ma ignaro del proprio aspetto antico. Anni di chiusura, per altri decenni, ma ancor nulla rispetto all’attesa sterminata che dovettero patire i riminesi prima di riavere un teatro. Non a caso, poco prima che Cecilia Bartoli riaprisse il Galli con Cenerentola, il sindaco di Rimini ha voluto portare sul palcoscenico un signore di 75 anni, emblema vivente di quanto la città fosse rimasta orfana del suo teatro. Destino analogo toccò all’Opera de La Valletta, che l’aviazione nazista bombardò nel 1942 e che rimase in ruderi fino agli anni
2000, quando si diede vita al progetto di risanamento di Renzo Piano che la mutò in un teatro all’aperto. In tempo di guerra tuttavia le vittime più illustri e numerose si ebbero nella Mitteleuropa, dove quasi nessuna tra le grandi città sfuggì ai bombardamenti. L’Opera di Vienna ci mise dieci anni a risorgere - sostituita nel frattempo dall’An der Wien - quella di Dresda molti di più e fu ripristinata, secondo il progetto antico, solamente negli anni Ottanta del secolo scorso. La riapertura della Wiener Staatsoper fu un fatto epocale, secondo Viktor Reimann “il più grande evento culturale in Austria dopo il 1945”. Era il 5 novembre del 1955 e un nervosissimo Karl Böhm dirigeva un cast di stelle nel Fidelio di Beethoven. Intorno allo stabile alcune migliaia di persone in piedi sotto alla pioggia ascoltavano la recita, trasmessa in diretta dagli altoparlanti. Tra i primi teatri a cadere sotto i colpi
del conflitto ci fu l’opera di Varsavia che nel 1939 venne cannoneggiato dai tedeschi. Ne sopravvissero la facciata e alcune rovine su cui gli stessi tedeschi avrebbero fucilato gli insorti durante la rivolta del 1944. Oggi una lapide all’ingresso principale ne ricorda l’eroismo. Ci sono poi i teatri che chiudono le serrande per qualche operazione di restauro o restyling, che alle volte marciano spediti secondo la tabella, altre si impantanano per motivi più o meno oscuri. Se alla
Scala i lavori targati Mario Botta per l’edificazione della torre scenica portarono via solo un paio d’anni, dal 2002 al 2004, per altro ben dirottati sull’Arcimboldi (triste parabola, passato in poco tempo da Verdi a Zelig), altrove le cose sono andate in modo diverso. Quando il Massimo di Palermo venne chiuso nel 1974 i lavori sarebbero dovuti durare un paio d’anni: lo riaprirono Claudio Abbado e i suoi Berliner solo nel 1997. Dieci anni di pausa se li è presi invece la Staatsoper Unter den
Linden di Berlino, nel fratsostituita tempo degnamente dall’ottimo Schillertheater, un “cinemone” di incombruttezza mensurabile ma impagabile comodità. Chissà che oggi i berlinesi appollaiati sulle sedute laterali della chiccosissima opera storica non lo rimpiangano un po’. Come si accennava trattando i casi della Fenice, del Liceu o, sull’altra sponda del fiume, del Regio di Torino, spesdi so le ricostruzioni edifici storici pongono seri problemi riguardo l’opportunità o meno di rispettare i progetti originali, ricostruendo l’edioppure ficio tale e quale, di rinnovarne completamente il carattere, adeguandolo ai tempi mutati. Per il Regio, o per il Carlo Felice di Genova ad esempio, si sono scelte strade nuove, in altri casi si è replicato quanto distrutto da fiamme o bombardamena ti. Nel dopoguerra Vienna divampò un’aspra polemimeno ca sul ripristino o dei palchetti della Staatsoper. Si optò per il sistema antico, in luogo delle più moderne e democratiche “file”, rispolcon verando, pur qualche minuscola modifica, il progetto originale di August Sicard von Sicardsburg, ritepiù nuto esteticamente comaltri patibile con gli spazi dell’edificio e con la memoGuardancaso ria del pubblico. dosi indietro, il forse più eccentrico di chiusura temporanea riguardò l’opera reale svedese, le cui attività furono sospese tra il marzo e il novembre del 1792 dopo che il suo fondatore, il Re Gustavo III, venne ferito a morte dal veterano Jacob Jodurante han Anckarström il famoso ballo in maschera. Il resto è storia (dell’opera).