Classic Voice

Il cantante di Luca Baccolini Jonas Kaufmann, un nuovo disco sull’operetta. E il debutto all’Arena, pensando alla Scala

Il mezzo secolo di Jonas Kaufmann con un disco dedicato all’operetta. In giugno debutterà all’Arena di Verona, unica data italiana del 2020. Intanto si muove per tornare alla Scala...

- DI LUCA BACCOLINI

Quando si rivedrà Jonas Kaufmann in carne e ossa su un palcosceni­co italiano (non per un concerto di gala per pochi eletti)? Ora c’è una data: Verona, 28 giugno 2020. E per il momento bisognerà farsela bastare, in attesa di un ritorno alla Scala, ormai probabilis­simo ma non ancora annunciato. Nel frattempo il tenore ha scollinato i cinquant’anni e li ha celebrati in un libro fotografic­o presentato a Vienna assieme a un disco che ha i tratti dell’amarcord, ma anche della missione: “Wien” è il suo titolo lapidario, ovvero riportare l’operetta al rango dell’“operona”, “perché in fondo anche Lehár può affascinar­e come Puccini”. Se lo dice Jonas Kaufmann, che sta studiando per Tristan und Isolde, mentre è in corso il suo gigantesco tour europeo in undici tappe a base di Johann Strauss e canzoni popolari viennesi, ci si deve credere per forza. A scavar bene, nel suo ultimo disco Sony si troverà l’humus musicale in cui cresceva Jonas, prima che diventasse Kaufmann, quando la nonna gli cantava Johann Strauss e il nonno, intuendo il talento del nipote, si prese cura di pagargli le prime lezioni. Una famiglia amava Wagner, l’altra l’operetta. Alla fine lui ha messo d’accordo tutti. Questo viaggio negli affetti e nella Vienna Felix approderà all’Arena di Verona il 28 giugno 2020, unica data italiana dell’anno, “e sarà anche il mio debutto in Arena - spiega Kaufmann, senza nascondere la sua soddisfazi­one - dopo esserci stato solo sugli spalti”, quando da studente scendeva in Italia per le vacanze sull’Adriatico. Un topos tedesco.

Kaufmann, perché l’operetta?

“Perché sono i miei primi ricordi musicali, e perché credo che al di là dei pregiudizi sia un mondo da riscoprire e da valorizzar­e ancora. Questo repertorio mi ha sempre messo di buon umore, sia da bambino, sia da studente, soprattutt­o quando mettevo su Fledermaus diretto da Carlos Kleiber. E non si creda che sia più facile cantare Johann Strauss o Franz Lehár: devi sempre cercare di rimanere leggero, semplice e naturale come un niente, anche quando l’orchestra raddoppia la melodia. Difficile combinare questi due aspetti, altroché”.

Perché secondo lei l’operetta è diventata uno spettacolo di serie B, almeno in Italia?

“Anche nel mondo tedesco purtroppo ha perso terreno rispetto al melodramma. È un pregiudizi­o diffuso. Del resto il teatro è sempre visto meno come un’opportunit­à per divertirsi. Certo a Vienna è ancora tenuta in grande conside

razione, ma non dappertutt­o ha mantenuto la sua presa. Il problema è che oggi reputiamo banali proprio i suoi punti di forza, cioè l’impatto melodico. Spero di diventare un ambasciato­re della sua rinascita, chissà”.

Quali altre sfide l’attendono nei prossimi mesi?

“Il 18 novembre debutterò Die tote Stadt a Monaco, con Kirill Petrenko e la regia di Simon Stone. Cantare Paul in quel titolo è una sfida molto difficile: c’è un’orchestra gigantesca da superare, pensata da un compositor­e, Erich Wolfgang Korngold, che a vent’anni non sapeva fare economia di mezzi. Ma che capolavoro!”.

...in cui riecheggia anche il mondo dell’operetta.

“Ci va vicino, ma la storia è ovviamente molto seria. In quella partitura c’è tutto: Richard Strauss, Puccini, le nuove armonie jazz. E richiede tanti personaggi in uno solo. Vocalmente ha acuti scomodissi­mi”.

Lei come si approccia ai titoli in cui debutta?

“Cerco di non sentire troppe registrazi­oni, anche se a volte si deve, come in questo caso. Ho ascoltato molto la storica incisione di Erich Leinsdorf, ma di solito preferisco scoprire tutto con le mie orecchie, alla vecchia maniera: spartito in mano e pianista al mio fianco”.

La si attende in Arena, dicevamo.

“Non vedo l’ora. Chiariamo subito: non sarà un’opera intera, ma uno spettacolo in cui canterò vari brani. Un collega, mio caro amico, mi ha sempre sconsiglia­to di salire su quel palcosceni­co: troppo caldo, troppo freddo, la pioggia, l’umidità, gli imprevisti. Ma non mi interessa niente. Quando hai 14.000 persone davanti dimentichi tutto. Non riesco ancora a immaginarm­i la situazione. Ma so che per me sarà un po’ come tornare ragazzo. Quando scendevo in Italia per andare al mare, sull’Adriatico, una tappa all’Arena era obbligator­ia. L’occasione giusta per cantarci non si presentava mai, ma ora è finalmente arrivata. Spero e credo che non sarà l’ultima volta che ci canterò”.

Da qui al 2020 sarà la sua unica data italiana. E dopo?

“Per il futuro c’è qualche contatto con la Scala. C’è un titolo che non ho mai cantato in Italia e che mi piacerebbe fare proprio lì...”.

Ce lo dica.

“Andrea Chenier”.

Sta studiando da Tristano?

“Sì, per il 2021. Ho cominciato presto per assorbire meglio il ruolo. Non posso fare altrimenti”. Si può sapere dove lo canterà? Magari al Festival di Bayreuth? “Qui devo tacere”.

E sogna altri debutti, magari assoluti?

“Sì, un titolo che prima o poi farò, perché è veramente il mio sogno, è interpreta­re Herman in Dama di picche. Sapete cosa mi dice sempre Anna Netrebko? ‘Se per un giorno fossi un tenore, vorrei essere Herman’. È una parte straordina­ria, ma...”.

Ma?

“Non conosco ancora il russo. E io se non vado a fondo nella lingua che canto sento di avere un handicap. Cantare è dare significat­o alle parole. Bisogna capirle per fare capire, altrimenti non ha senso”.

Dovrà fare un’eccezione, se vuole davvero essere Herman...

“Sì, ma solo in questo caso”.

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