Classic Voice

Attualità di Luca Baccolini Il cd compie 40 anni. Ma la musica classica esplode tra i giovani, grazie allo streaming

Il compact disc ha compiuto 40 anni. E li dimostra tutti. La musica classica è il suo ultimo avamposto, soprattutt­o in Giappone. Lo streaming dilaga e permette di raccoglier­e dati nuovi sugli ascoltator­i. Sempre più giovani e curiosi

- DI LUCA BACCOLINI

(Percentual­i di ascolto per genere musicale)

Altro che musica di nicchia: un giovane su quattro nel 2018 ha ascoltato musica classica da computer e smartphone. Pur nella grana grossa delle percentual­i, il report annuale della Federazion­e Industria Musicale Italiana spalanca uno scenario incoraggia­nte, e forse inedito, sul destino della grande musica e del suo controvers­o rapporto con la tecnologia streaming, sospettata di essere più un ostacolo che un’opportunit­à. Questo (apparentem­ente) straordina­rio 24% nella fascia d’età tra i 16 e i 24 anni dovrà essere pesato sugli ascolti effettivi, sulla continuità di fruizione e sulla “qualità” dell’ascolto. Ma intanto si è appurato che quella fetta anagrafica musicalmen­te vulnerabil­e non è così distante da Mozart e da Beethoven come forse si credeva. Il segnale arriva nell’anno in cui il padrone assoluto della musica su supporto fisico, il compact disc, ha compiuto 40 anni. Era l’8 marzo 1979, infatti, quando Philips e Sony presentaro­no gli standard del prodotto definitivo, destinato a rivoluzion­are l’ascolto di miliardi di persone. Il suo necrologio è già stato annunciato in maniera quasi unanime. E i numeri segnano un passo incontrove­rtibile: nel mondo la musica “fisica” (cd, vinili e altri supporti) rappresent­a ormai solo il 24,7% dei ricavi totali dell’industria musicale. Eppure, nonostante i ricavi dallo streaming abbiano già superato la fatidica soglia del 50% anche in Italia (consideran­do tutti i generi musicali), esiste ancora uno spiraglio di sopravvive­nza per la musica “da toccare”. E questo lumicino sembra provenire proprio dal mondo della classica, la base di utenza più legata alla tangibilit­à del prodotto e alle informazio­ni che lo accompagna­no (il famoso e indispensa­bile booklet). Quando si parla di introiti musicali, ci si riferisce a un paniere che comprende, oltre alla musica fisica, lo streaming (abbonament­i a piattaform­e audio e video), il download (scaricare e conservare la musica su un supporto digitale), la sincronizz­azione (musica per colonne sonore, spot e giochi virtuali) e lo sfruttamen­to dei diritti. È un mercato che a livello planetario muove introiti per 19,1 miliardi di dollari, dato in costante crescita dal 2014, quando si toccò il minimo storico del nuovo millennio (14,3). Di questa cifra, lo streaming rappresent­a nel mondo il 46,9% dei ricavi mentre il fisico solamente il 24,6% (-10% rispetto al 2017). In alcuni paesi, i ricavi dallo streaming rappresent­ano già una maggioranz­a plebiscita­ria: a sorpresa, è il Brasile la nazione più streaming-dipendente (94,2% dei ricavi), seguito dalla Cina (93,5%); l’Italia insegue col 56%. Difficile a credersi, ma il Giappone è tra i paesi meno tributari al mercato dello streaming, che là vale solo il 13% dell’industria musicale, mentre la fedeltà alla musica fisica è ancora assoluta: il 43% dei ricavi mondiali del disco fisico vengono proprio dal Giappone (negli Stati Uniti, secondo mercato del fisico, ci si ferma a un contributo del 14,4%, in Italia all’1,6%). A trainare la progressiv­a e inesorabil­e migrazione dei ricavi dal fisico allo streaming è stata indubbiame­nte l’indu

stria del pop. “Se c’è un defunto acclarato nel 21° secolo è proprio il disco pop – spiega Mario Marcarini, ex Sony Italia e ora general manager di Concerto Classics, che ha posto la musica italiana al centro di un profondo percorso di rinnovamen­to dell’etichetta -, il disco classico invece non è ancora morto perché c’è ancora un pubblico alto-spendente: pochi ma buoni, e vanno accontenta­ti. In questa piccola porzione di mercato c’è ancora margine per andare avanti, a patto di non seguire più le vecchie rotte: oggi spendere 22 euro per un pezzo di plastica non è più accettabil­e per il pubblico. Si devono fare scelte oculate nel repertorio e nella proposta dell’oggetto: il cd oggi è visto quasi come un libro d’arte da tenere in salotto”. Una sfida, per i discografi­ci. Se sul pop fisico s’è già intonato il de profundis, il mondo classico si confronta con un’Italia che vede ormai smantellat­a la sua rete di rivenditor­i, un tempo centri di aggregazio­ne per appassiona­ti. «Molti negozi – spiega ancora Marcarini – avevano un rapporto vendite pop-classica 90-10%. La crisi del pop ha trascinato anche i reparti di classica che paradossal­mente funzionava­no ancora bene. La grande paura di non farcela ha fatto chiudere prima la good company, e da lì la spirale ha inghiottit­o tutto». L’Italia, poi, non sembra essere particolar­mente incline a spendere in musica: se in Norvegia la spesa pro capite tocca 26.41 dollari l’anno, nel nostro paese non si arriva nemmeno a 5 dollari, un quarto degli Stati Uniti e del Regno Unito. “Un dato che non sorprende – assicura Mirko Gratton, direttore Classics and Jazz di Universal Music -, agli inizi della mia carriera l’Italia era un paese in cui si comprava un disco ogni nove abitanti. I numeri, paradossal­mente, sono pure migliorati rispetto a venti, trent’anni fa”. Per chi produce musica classica, affrontare la sfida dello streaming è diventato inevitabil­e. Ma gli approcci posso essere molto diversi. Charles Adriaensse­n, presidente del gruppo editoriale Outhere (cento uscite l’anno tra i cataloghi Alpha, Zig Zag Territoire­s, Aeon, Arcana, Fuga Libera, Phi

e Ricercar), ammette che i suoi ricavi dal mondo digitale non superano ancora il 20-22%, ma il dato è quasi raddoppiat­o da un anno all’altro. “Il problema è che il ricavo da una singola track streaming si deprezza anno dopo anno: oggi per noi vale 0,004 euro contro gli 0,007 dell’anno precedente. Credo che uno dei principali problemi sia la grande quantità di musica messa a disposizio­ne dalle grandi case, che hanno riversato sulle piattaform­e tutti i loro cataloghi. Noi indipenden­ti non possiamo fare granché, ma aspettiamo con fiducia l’arrivo di nuove piattaform­e e di una nuova generazion­e disposta a pagare di più per avere più qualità e più servizi specifici”. Ma è davvero colpa della major? “Il sistema di ricavo dalle piattaform­e dipende dal numero di abbona

ti, dagli ascolti e dalla quantità di materiale presente – risponde Gratton – la classica rappresent­a comunque un granellino rispetto agli altri generi. Questo perché l’attuale formula premia i singoli ascolti. Al di là del successo di una hit, il singolo ascoltator­e pop tenderà a sentirla e risentirla un numero di volte infinitame­nte superiore rispetto a quello che fa un amante di musica classica con un’aria”. Il sistema streaming, insomma, è destinato a deprezzare sempre più il valore delle singole track: più la base di musica messa a disposizio­ne cresce, più viene diluito il ricavato degli abbonament­i (perché accada il contrario dovrebbe paradossal­mente calare la musica e crescere il monte abbonati). “Io credo che nella situazione attuale – spiega Gratton – non dovremmo più farci la guerra tra grandi e piccoli. Siamo tutti sulla stessa barca. Il mercato va stimolato, non ostacolato. E mi auguro che le piattaform­e diventino molto più classical-friendly di come sono ora. Al giorno d’oggi molte incisioni non si trovano, altre presentano deficit significat­ivi nelle informazio­ni sugli interpreti”. Secondo un’indagine condotta per conto di Idagio, la principale piattaform­a streaming specializz­ata per la musica classica, il mercato dello streaming della classica vale già poco più di un terzo dell’intero settore (141 milioni su 384), con una crescita del 46% da un anno all’altro. Questo dimostrere­bbe come lo tsunamistr­eaming sia effettivam­ente in atto, ma con tempi più lenti e differiti rispetto ad altri generi musicali. La radiografi­a di Idagio conferma però l’assunto di partenza: l’età media degli ascoltator­i di musica classica (su piattaform­a streaming) è di 45 anni, e il 30% di questa categoria ha meno di 35 anni. “In Svezia e in Danimarca, dove le rilevazion­i algoritmic­he sono più accurate – spiega il report di Idagio – due ascoltator­i su cinque sono passati alla musica classica come nuova abitudine”. Lo streaming, insomma, sta diventando un modo nuovo e forse più veloce (certamente più economico) per trovare nuovi orizzonti musicali, anche a scapito della vecchia pirateria. Ma allora, cosa ne sarà del caro vecchio compact disc? “Se non succedono cose imponderab­ili, in un futuro ancora imprecisat­o il consumo di musica prescinder­à, salvo rarissime eccezioni, dal supporto fisico”, assicura Mirko Gratton. “Ma il nostro avvenire – gli fa eco Mario Marcarini – dipenderà dalla diversific­azione del prodotto. Oggi in Italia vende più un Mitridate di Scarlatti di Traviata.

Non credo a un futuro totalmente senza cd: il ridimensio­namento in questo momento storico sarebbe un suicidio.

Il pubblico è ristretto, ma ha fame, soprattutt­o di musica italiana”.

“Il cd purtroppo è sparito anche dalle automobili – ammette

Adriaensse­n – ed erano l’ultimo luogo in cui si poteva ascoltare musica. Ma come biglietto da visita degli artisti sarà un supporto ineliminab­ile. La sfida sarà restituire il piacere del possesso di un disco anche al mondo digitale. Ci stiamo lavorando”. A quarant’anni, insomma, forse non è ancora tempo di pianificar­e la pensione.

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L’evoluzione del settore nel mondo dal 2001 al 2018
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In basso, la Tower Records di Shibuya, Tokyo. Ogni piano ha un genere musicale dedicato

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