In copertina di Luca Baccolini Beatrice Rana, la pianista che cerca la verità sul palcoscenico. Come Marina Abramovic
Se a 26 anni passi un giorno su due in un non luogo come l’aeroporto, è inevitabile che il bisogno di verità sbuffi fuori come un geyser. Beatrice Rana il suo bisogno di verità - nel senso di ritorno alle radici - lo ha sublimato fondando un piccolo festival cameristico nel suo Salento. Ma poi, sul palcoscenico, occorrono altri modi per cercare quel nocciolo che tanti non riescono mai a raggiungere in una vita intera.
Beatrice Rana, da quale fuso orario sta parlando?
“Da quello di Toronto. Ma ho perso il conto, so solo che è mattina. Saranno le cinque”.
Lo dice con tono sconsolato. Eppure si sarà abituata alla vita aeroportuale. A quanti concerti arriva in un anno?
“Attorno ai novanta. Ma a volte gli aerei sono anche di più. Bisogna considerare gli scali. Ormai nel mio Salento riesco a passare due settimane a Natale e un mese, sacro per me, d’estate”.
È la vita che si aspettava?
“Non ci avrei mai creduto, non prima dei trent’anni perlomeno. Fare la pianista non pensavo volesse dire questo. Ingenuamente prima dei vent’anni mi dicevo: che ci vuole? Vado, mi siedo, suono per qualcuno e torno”.
Di anni ora ne ha 26 compiuti. Quando le si è davvero
rivoluzionata la vita?
“Credo che tutto sia cambiato irreversibilmente dal concorso ‘Van Cliburn’ del 2011: parteciparvi era il mio sogno, ma era anche un’operazione rischiosa. Venivo dal concorso di Montreal (non lo dice, ma è stata la più giovane vincitrice, la prima italiana) e avevo ‘tutto’ da perdere. Avevo calcolato che anche arrivando in finale, nella migliore delle ipotesi, avrei fatto in tempo a spostarmi su Milano, dove il giorno seguente avrei avuto un concerto già fissato in precedenza”.
Solo che al “Van Cliburn” arrivò davvero in finale. Medaglia d’argento.
“Il problema è stato proprio questo: arrivai fino in fondo, cosa assolutamente non prevista, almeno per me. Gli organizzatori milanesi andarono nel panico. Pensavano che non ce l’avrei mai fatta ad arrivare in tempo. Mi venne a prendere all’aeroporto Antonio Mormone in persona, che mi avrebbe accompagnato a fare un’intervista. E lì, in quel trambusto, ho capito che non si tornava più indietro”.
Quando hanno smesso di chiamarla enfant prodige?
“Non lo ricordo più, per fortuna. Sono contenta però che quella fase sia finita, anche se non mi ritengo ancora nella maturità. E poi, che cos’è la maturità? Nella carriera di un pianista non c’è mai niente di statico. Ogni età determina le sue scelte artistiche. Mi verrebbe da dire ogni giorno”.
Beatrice Rana racconta il suo ultimo disco, dedicato a Ravel e a Stravinskij, e spiega perché un pianista dovrebbe sempre mettersi a nudo. Inseguendo un modello extramusicale: Marina Abramovic
Quanto studia?
“Tre ore tutti i giorni. Me lo impongo. A volte provo a studiare di più, ma raramente arrivo a cinque ore”.
Si interessa più ai musicisti giovanissimi o ai grandi vecchi?
“Da pianista guardo con più ammirazione i ‘vecchi’. I talenti mi possono impressionare ma poi sul palcoscenico bisogna saperci rimanere. Non ci può essere solo lo stupore iniziale. Per questo ammiro la longevità, la capacità di saper stupire a lungo. E sopra tutto questo ammiro la scelta di rinunciare, come ha fatto Alfred Brendel, che ha capito quando era giusto smettere, giusto per lui, s’intende. È stato un atto di coraggio, un gesto eroico. Non è facile rinunciare al palcoscenico, che non è una gratificazione ma l’essere stesso, la sostanza di un pianista”.
La pensa così anche lei? Pensa, cioè, che la sua vita e il pianoforte coincidano?
“Per un pianista non credo ci sia un confine tra l’essere e il fare”.
Dobbiamo considerare il suo ultimo disco un pezzo della sua vita, insomma.
“Sì, ovviamente il pezzo di una vita già vissuta, perché il programma è stato pensato un paio di anni fa. Sono tuttora molto legata a Ravel e quei primi anni del Novecento a Parigi, dove c’erano rivoluzioni continue nel gusto, dove la musica ha cessato di essere com’era stata fino a quel momento. Mi piaceva il gioco di specchi e di riflessi. So che non c’entra con le intenzioni di Ravel, ma i suoi Miroirs mi ricordano il mare di settembre in Puglia, la mia infanzia, una vacanza in un mare dove non sono più tornata, gli uccelli tristi d’inizio autunno e le barche all’orizzonte. Sono accostamenti istintivi, incanti, suggestioni”.
E Petrushka?
“Mi ha sempre colpito la dualità del burattino che non riesce a decidere tra natura umana e artificiale. Una dissonanza irrisolta anche in partitura. Quanta verità c’è in quella musica...”.
È davvero così importante la verità per un pianista?
“Credo sia alla base del rapporto con il pubblico”.
Quali artisti ci riescono secondo lei? Quali tra quelli che lei ammira, perlomeno.
“In campo musicale?”
Anche in senso lato, se preferisce.
“Marina Abramovic. Perché trasfe
risce le sue idee mentali sul corpo, esattamente come dovrebbero fare i pianisti. E poi per la sua capacità di non porsi limiti, per cercare la verità artistica in maniera nuda e cruda, quasi disinibita”.
Ha detto una cosa “trasgressiva”...
“Beh, quando ho suonato le Goldberg penso di aver vissuto e fatto vivere un’esperienza altamente trasgressiva: stare seduti in un posto senza metter mano al telefono e ascoltare per settanta minuti una persona...”.
Che cosa ammira della Abramovic?
“Il fatto di non voler mettere mai distanze tra sé stessa e le persone. E di non dare mai per scontato il significato e le conseguenze di una performance. Trovo commovente vederla piangere quando una sconosciuta si siede di fronte a lei e la guarda così intensamente da muoverle qualcosa dentro (nella foto, in una performance del 2010, ndr). Non dico che sia quello che è successo a me durante un concerto, ma credo di aver reso l’idea”.
È quello a cui ambisce anche lei, abbattere le distanze col pubblico?
“La musica fa tornare a galla in maniera inaspettata sensazioni e ricordi. Dico spesso che i concerti hanno la capacità di cambiarmi giornate orribili. Vale per chi suona. Spero valga anche per chi ascolta”.
Conta molto il pubblico per lei?
“Sì, anche se quando entro non fisso mai la platea. Quando finisco invece mi piace osservare i volti. Una volta a Roma sapevo che in sala c’era Benedetto Lupo, il mio maestro d’una vita. Avevo il terrore di suonare per lui, mi obbligai a non guardare il pubblico, ma lo feci e la prima e unica persona che individuai, ovviamente, fu lui”.
E con il pubblico virtuale che rapporto ha?
“Se si parla di social network, ho imparato a ‘selezionare’ in maniera istintiva per non mettermi di cattivo umore. Una volta andavo a cercare i cosiddetti hater, ora non più. Sinceramente, non sopporto più i commenti degli ignoranti, ignoranti in senso etimologico: che ignorano. Ignorano cioè cosa significhi essere un pianista, i sacrifici che si fanno, gli anni di preparazione, lo studio, il tempo passato lontano da casa”.
...in un mondo, il suo, in cui la concorrenza è spietatissima. Soprattutto quella che viene dall’Oriente.
“Oggi siamo più preparati a fronteggiarla. Europei e americani hanno imparato che non si può prescindere dalla perfezione tecnica. La mia generazione ne è consapevole. Sa, perlomeno, che il livello agonistico è quello, ed è l’unico parametro oggettivo. Anche in Oriente, però, sono migliorati molto sul versante dell’interpretazione. È incredibile vedere come culture così distanti acquisiscano con una tale familiarità la ‘nostra’ musica”.
Li aiuta un senso del dovere marziale.
“Però non bisogna dimenticare la componente umana. A parità di tecnica, è la vita che aggiunge qualcosa all’interpretazione. Ma se una vita non ce l’hai, cosa puoi raccontare alle persone e anche a te stesso?”
Sarà l’alba, dalle sue parti. È tempo di salutarla. Non prima di averle chiesto cosa o quale autore le piacerebbe suonare, fuori dal suo repertorio abituale.
“Schubert. Non ho mai suonato nulla della sua musica. Il motivo? Beh, mi faceva paura. Paura della sua apparente facilità d’invenzione, un fluire naturale, come una fontanella. Un giorno ci arriverò”.
Quali repertori insoliti sta solcando ultimamente?
“Il terzo e quarto libro di Iberia di Albeniz, tecnicamente impervio, ma è musica straordinaria. Che porterò anche in Italia”.
Un concerto che non ha mai eseguito e che eseguirà?
“Prima o poi, spero presto, il Secondo Concerto di Brahms”.
Ravel
Miroirs “Une barque sur l’ocean” Beatrice Rana pianoforte (dal nuovo cd Warner)